Audioguida

Questo servizio è stato realizzato grazie al sostegno di Fondazione Cariparma

SALA A

I documenti più antichi relativi al formaggio Parmigiano Reggiano risalgono al 1254. A Soragna la sua produzione è documentata dagli estimi fin dal Cinquecento. Il principe Casimiro Meli Lupi fece costruire il caseificio dove oggi ha sede il Museo, presumibilmente verso la fine degli anni Quaranta dell’Ottocento, in stile neoclassico, con pianta circolare e colonnato. Si trattò di una scelta di grande originalità: è infatti l’unico edificio di questo tipo oggi esistente. L’interno è stato allestito come un caseificio dei primi anni del Novecento e la visita consente di seguire le diverse fasi del processo di trasformazione del latte in Parmigiano Reggiano (parte prima della visita – sala A). Nei due ambienti più recenti (salatoio e camera del latte) aggiunti nel Novecento al casello storico, sono state ordinate le sezioni del museo che riguardano le successive fasi di lavorazione: nel salatoio interrato (parte seconda della visita – sala B) si trovano le sezioni relative alla salatura, alla storia del prodotto e al suo impiego gastronomico. Nella camera del latte soprastante (parte terza della visita – sala c) si visitano le sezioni relative alla stagionatura, alla commercializzazione e alla storia del Consorzio del Parmigiano Reggiano.

I contadini portavano il latte al caseificio la sera e il mattino presto. A sinistra dell’entrata si trova una bilancia (stadéra) con il suo braccio fissato al muro e la secchia da latte per la pesatura. Nei primi anni dell’Ottocento il latte era ancora misurato in maniera volumetrica (nel Parmense la secchia aveva la capacità fissa di 21,31 litri) ed il livello di riempimento si verificava con un’asta graduata di legno. In seguito fu introdotta la bilancia, che consentiva una misurazione più precisa. Nel Novecento si diffuse l’uso dei bidoni metallici, soprattutto quelli da 52 litri, più pratici, di cui sono qui presentati diversi esemplari.

Su una mensola accanto al muro esterno si possono osservare alcune bacinelle metalliche, mentre dalla parte opposta, verso il centro dell’edificio, si trova una struttura con tre vasche rettangolari: sono strumenti utilizzati per favorire l’affioramento della panna. Poiché il Parmigiano Reggiano è un formaggio semigrasso, è necessario asportare una parte della panna, sfruttando le caratteristiche naturali del latte: la panna, di peso specifico più basso, tende ad affiorare alla superficie e, così facendo, trasporta con sé buona parte della carica batterica presente nel latte, che provocherebbe fermentazioni indesiderate. Il latte della sera veniva versato nelle bacinelle, dove restava fino al mattino, quando veniva scremato. Il latte del mattino riposava invece più brevemente, per un tempo variabile in base alla sua acidità, quindi veniva scremato e unito al latte della sera precedente. Il grasso nelle bacinelle veniva raccolto con la spannarola, mentre nelle vasche, dopo la fuoriuscita del latte dal foro inferiore restava sul fondo: il latte magro così ottenuto aveva un grado di acidità ideale per la trasformazione e un numero contenuto di batteri.

Appoggiati alla parete esterna si possono osservare due recipienti per il siero innesto (siero ottenuto dalla lavorazione del giorno precedente fermentato). Sono due damigiane di vetro protette da una impagliatura di vimini. Il siero innesto, di introduzione abbastanza recente, si diffuse a partire dal 1905 e contribuì sensibilmente al miglioramento della qualità del prodotto. Questa pratica permette di arricchire il latte di fermenti che favoriscono la produzione del formaggio. Infatti per poter maturare correttamente, la cagliata deve contenere un numero sufficiente di fermenti lattici attivi.

Alla destra della porta si notano alcuni attrezzi fissati alla parete: lo spino, la rotella, la pala e il termometro impiegati dal casaro nella lavorazione del Parmigiano Reggiano. Verso il centro del caseificio si possono vedere due caldaie. La più antica, ottocentesca è a fuoco diretto, l’altra, del 1949, veniva riscaldata a vapore. Agli inizi del Novecento la tecnica di trasformazione prevedeva che al latte posto nella caldaia conica – circa 450 litri – si aggiungesse il siero-innesto, e quindi il caglio, un enzima ottenuto dallo stomaco dei vitelli lattanti. Avvenuta la coagulazione, la cagliata veniva rotta, prima con la rotella, in frammenti della grandezza di una nocciola, poi con lo spino, in grani della dimensione di un chicco di mais. Per favorire l’emissione del siero dalla massa coagulata si teneva in movimento con la rotella mentre si portava la temperatura fino a 55°. Quando il casaro riteneva al tatto che la cagliata fosse sufficientemente asciutta e coesa diceva al ‘sottocaldera’ che governava il focolare, di spegnere il fuoco. Dopo un momento di riposo sul fondo della caldaia, la massa veniva sollevata con la pala e raccolta in un telo. La cagliata era poi inserita nella fascera a riposare per favorire lo spurgo del siero.

Dopo gli attrezzi per la lavorazione, accanto alla parete si nota la tavola o spersole sulla quale era posta la forma fresca racchiusa dalla fascera e pressata da un peso. La tavola ha una scanalatura laterale per favorire lo sgrondo del siero che fuoriusciva dalla forma. Il siero era raccolto e usato per l’alimentazione dei maiali. Sullo spersole è posta una fascera in legno di salice nella quale la cagliata era avvolta da un telo di canapa o lino.

Verso il centro del caseificio si possono osservare due diversi tipi di caldaie, i grandi recipienti in rame utilizzati per la cottura del latte. La più antica è quella a fuoco diretto di legna, databile alla seconda metà dell’Ottocento. La fornacella col muretto in mattoni è stata ricostruita secondo i modelli dell’epoca. Accanto a questa si può vedere una caldaia a doppio fondo con riscaldamento a vapore del 1949. Spostando ora lo sguardo verso il muro divisorio interno si può notare il pannello frontale di un generatore a vapore orizzontale. Nella parte superiore era posto l’ingresso del combustibile – carbone o legna – mentre sotto vi era il cinerario per estrarre la cenere. La macchina trasformava l’acqua in vapore, che veniva inviato alle caldaie e anche ad una motrice a vapore. Quest’ultima trasformava l’energia del vapore sotto pressione in forza motrice che faceva muovere tutti gli strumenti del caseificio. La caldaia è ancor oggi di rame perché è un metallo ottimo conduttore di calore. A ridosso del muro esterno dell’edificio si nota il cosiddetto cavallino a vapore, ossia un meccanismo messo in movimento dal vapore per la trasmissione della forza motrice alle macchine del caseificio.

Una bacheca a muro introduce alla sezione dedicata al controllo della qualità del latte destinato alla produzione del Parmigiano Reggiano. Si trovano qui alcuni strumenti destinati a controlli analitici, semplici ma efficaci, entrati nell’uso prima della II Guerra Mondiale. Si tratta di un provino in vetro con capienza di 50 centimetri cubi, una buretta per il controllo dell’acidità del latte o del siero innesto, un densimetro per verificare eventuali annacquamenti e un porta provette per la prova di fermentazione del latte. Un tempo il casaro, per rendersi conto della qualità del latte, non aveva che i propri sensi e li usava bene perché, per esempio, il margine di errore sulla temperatura che misurava con il braccio era di +/-1° C. A partire dal 1883 a Reggio Emilia, alla Regia Scuola di Zootecnia si iniziarono ad effettuare le prime analisi su latte e formaggio. Dagli anni Cinquanta del Novecento le analisi coprirono la totalità dei caseifici. Nell’Ottocento l’igiene del caseificio lasciava alquanto a desiderare, il pavimento era in terra battuta e l’interno era tutto nero di fuliggine perché il fuoco a legna non aveva un vero e proprio camino. Nel Novecento la situazione migliorò nettamente grazie all’aumento dell’istruzione tecnica dei casari, all’impiego del vapore e alla disponibilità del siero innesto. Nella bacheca si può vedere un mazzerino, impiegato per la pulizia delle caldaie ed una spatola impiegata per la pulizia delle vasche di affioramento.

La produzione del burro avviene in tre momenti: la scrematura, la zangolatura, e la produzione dei pani di burro. Accanto alla bacheca a muro si trova una scrematrice meccanica. Il burro si ottiene dallo sbattimento della panna. La panna proveniva per lo più dall’affioramento del grasso del latte nelle apposite vasche. Rimaneva però una certa percentuale di grasso nel siero residuo dalla lavorazione del formaggio. Per recuperarlo vennero costruite le scrematrici che lavorano grazie alla forza centrifuga. Verso il centro del caseificio si notano tre tipi di zangole: una a pistone, una a tamburo e una a botte. Il principio di funzionamento è semplice: sbattendo la panna a una temperatura piuttosto bassa, avviene la cosiddetta inversione di fase e il grasso si solidifica diventando burro. La piccola zangola verticale è del tipo più antico che si conosca. Una seconda zangola a manovella, usa il principio della centrifuga. La terza zangola a cilindro orizzontale, detta Reggiana, era mossa dalla forza motrice del vapore tramite una puleggia connessa ad una ruota laterale. Tornando verso il muro esterno si vede una bilancia (bascula) del tipo usato nella prima metà del Novecento che serviva per pesare per lo più burro e piccoli quantitativi di formaggio. Il burro era avvolto in una carta apposita e messo in un blocco unico nella cassetta dopodiché era inviato al burrificio. A fianco, su un tavolino da magazzino di formaggi, si trovano uno stampo per pane di burro singolo e uno multiplo, quest’ultimo incompleto. Ultimo strumento utilizzato dal casaro era la segnarola, un bastone piatto con zigrinatura che serviva per spandere le masse di burro tolte dalla zangola per spurgarle dal liquido ancora contenuto.

Spostandosi al centro del caseificio, appeso al muro centrale di sinistra si trova un pannello con una preziosa serie di fotografie del 1944 relative alle varie fasi di lavorazione del formaggio, che introduce alla sezione dedicata all’immagine del Parmigiano Reggiano. Il prodotto, a quanto risulta, è rappresentato per la prima volta da Annibale Carracci attorno al 1600. Il primo filmato a rappresentare delle forme di Parmigiano Reggiano risale al periodo della Grande Guerra del 1915-18. La fase di trasformazione è rappresentata la prima volta in un quadro nel 1890 dal pittore reggiano Cirillo Manicardi. Il primo filmato della trasformazione risale invece al 1943.

Verso il muro esterno, alla sinistra della porta d’entrata si trova il materiale relativo alla produzione del latte in stalla con le indicazioni delle principali razze bovine impiegate nel comprensorio del Parmigiano Reggiano: la Rossa Reggiana detta anche Formentina, la Bianca Modenese detta anche Carpigiana, la Bruna Alpina e la Pezzata Nera o Frisona.

SALA B

Tornando indietro di alcuni passi si scende la scaletta che conduce al salatoio, costruito nel 1963. Il locale era seminterrato per garantire una temperatura fresca, necessaria alla riuscita del processo di salatura del Parmigiano Reggiano. Nelle vasche piene d’acqua veniva disciolto il sale marino fino alla saturazione della soluzione. Una volta che le forme fresche venivano messe a bagno, per un fenomeno di osmosi, il siero del latte ancora presente usciva, mentre la soluzione salina entrava nel formaggio. La salatura durava circa tre settimane. Il sale veniva e viene ancor oggi impiegato non tanto per motivi di sapore del prodotto, quanto per asciugare la forma e controllare così le fermentazioni microbiche indesiderate.

Sez. 13 – La gastronomia

Questa sezione è divisa in due parti: a sinistra della scala, appoggiata alle fondamenta del caseificio c’è una teca con la parte dedicata alla gastronomia mentre a destra della scala si trova la teca con i ricettari. La storia gastronomica del Parmigiano Reggiano inizia con la famosa citazione del Boccaccio nel Decamerone del 1349 in cui si parla dei maccheroni al formaggio. Nella teca sono presentate varie ricette tratte dai più titolati libri di cucina dal Cinquecento al XX secolo.

Sez. 14 – L’evoluzione del Parmigiano Reggiano attraverso i secoli

Rimanendo nel locale salatura e volgendosi a destra rispetto all’entrata, si notano una serie di pannelli murali che raccontano la storia del Parmigiano Reggiano nel corso dei secoli.

Al termine dell’esposizione storica, sulla parete Nord del salatoio (a sinistra dell’entrata) si trova la sezione dedicata all’architettura dei caseifici: quadrangolare isolato è una tipologia molto antica e frequente nell’Ottocento; quadrangolare accorpato è verificabile in numerose strutture sopravvissute ed è ben documentato dal Seicento; poligonale isolato è un tipologia classica reggiana della fine dell’Ottocento; poligonale accorpato è un tipologia reggiana della fine dell’Ottocento; quadrangolare moderno è diverso da quelli antichi perché nell’edificio sono riuniti tutti gli elementi della produzione: camera del latte e di lavorazione, salatoio e magazzino; circolare è una tipologia rarissima. Il caseificio Meli Lupi – come si è detto – è l’unico esempio noto.

Uscendo dal salatoio si ritorna nel caseificio e si gira a destra salendo la scala che porta alla camera del latte soprastante.

SALA C

La battitura. La battitura è un sistema di valutazione qualitativa del prodotto: gli esperti battevano (e tuttora battono) con uno speciale martelletto la superficie della forma stagionata per percepire dal suono la presenza di eventuali cavità dovute a fermentazioni batteriche indesiderate o fessurazioni. Le forme con fratture o cavità vengono declassate. Per avere invece un’idea dell’aroma del formaggio si usa un ago a vite, detto goccia, che si infila sotto la crosta della forma e viene annusato all’estrazione dall’esperto.

La stagionatura. Continuando il percorso lungo la parete Nord della Camera del latte, dopo gli strumenti per la battitura si trovano quelli per la stagionatura: un carrello da formaggio, un pancone mobile e una parte di scalone da magazzino, su cui sono disposti i modelli di forme del Parmigiano Reggiano di dimensioni progressivamente sempre maggiori con il passare dei secoli. In particolare si deve notare che le forme più antiche sono basse di spessore perché salate a secco; con la più efficiente salatura ad immersione introdotta agli inizi del secolo scorso, lo spessore iniziò ad aumentare progressivamente. Una grande bilancia ottocentesca da formaggio è posta alla fine della sezione.

Dopo gli oggetti del magazzino, proseguendo lungo la parete orientale della camera del latte si trova una vetrina che presenta la storia del Consorzio del Parmigiano Reggiano. Nel 1612 il duca Ranuccio Farnese, per evitare le frodi, stabilì con un atto formale che si potesse chiamare Parmigiano solo quel formaggio prodotto e stagionato nei dintorni di Parma e più precisamente nelle stalle ducali. Dunque la denominazione d’origine affonda le proprie radici in una storia secolare, ma la nascita di un vero e proprio ente di tutela fu lunga e complessa. Ai primi del Novecento era già evidente la necessità di tutelare la denominazione dai casi di imitazione o di appropriazione del nome, ormai popolarissimo in Italia e nel mondo. Dopo diversi tentativi, durante la grave crisi del 1934 i produttori, messi da parte i campanilismi, organizzarono un “Consorzio Volontario Interprovinciale Grana Tipico” al quale aderirono la maggior parte dei produttori della zona di produzione (province di Parma, Reggio, Modena e Mantova destra Po). Nel 1937 fu aggiunta anche la parte della provincia di Bologna a sinistra Reno. Nel dopoguerra, in seguito alla conferenza di Stresa del 1951 in cui le Denominazioni di Origine dei formaggi furono riconosciute a livello internazionale, il nome del formaggio divenne “Parmigiano Reggiano”. Il Consorzio, riconosciuto nel 1954 con il nome di Consorzio del formaggio Parmigiano Reggiano, svolge l’attività di difesa e tutela della Denominazione d’Origine, agevolazione del commercio e del consumo promuovendo ogni iniziativa rivolta a salvaguardare la tipicità e le caratteristiche peculiari del prodotto. Importante in questo senso il servizio di espertizzazione e marchiatura del formaggio. Il Consorzio definisce gli standard qualitativi ed i regolamenti di produzione tra i quali quello per l’alimentazione delle bovine, pubblicizza e promuove il prodotto. La denominazione d’origine Parmigiano Reggiano è stata riconosciuta valida in tutta l’Unione Europea nel 1996.

Verso la parete opposta della stanza, nello spazio tra le due scale, si trova la sezione dedicata alla commercializzazione del prodotto, con alcune pregevoli réclame pubblicitarie del primo Novecento, i piccoli marchi in metallo applicati alle forme per riconoscere i produttori e un canestro di vimini un tempo utilizzato per la spedizione delle forme.

Conclude la visita il filmato – a destra dell’uscita – con una sintesi della lavorazione tradizionale a legna del Parmigiano Reggiano ed il confronto con le attuali tecniche di lavorazione che hanno lasciato inalterato il patrimonio di esperienze accumulato nei secoli.