I grandi lavori di bonifica effettuati in Emilia, dai monasteri prima e poi dai comuni e dai grandi feudatari, arrivarono a rendere disponibili rilevanti superfici di terreno che avrebbero dato origine ad un notevole sviluppo dell’agricoltura.
Il tratteggio indica i confini provinciali attuali. Come si può vedere una parte del territorio reggiano (righe trasversali) apparteneva alla contea e diocesi di Parma.
Nel Duecento a Parma e a Reggio era presente una agricoltura per quei tempi abbastanza avanzata che aveva sempre più bisogno di bestiame grosso sia quale forza motrice sia quale fonte di fertilizzante per i terreni. Prima si lasciavano pascolare le mandrie nei terreni incolti ma così si perdeva il letame; di conseguenza si pensò di destinare delle superfici cintate da siepi alla produzione di prati. Tali prati erano vicini alle stalle e tale misura permetteva il recupero di tutto il letame. Per avere dei prati con buone produzioni era però necessario avere dell’acqua e non è un caso che le maggiori praterie si formassero là dove c’era abbondanza di acqua sorgiva: a Parma nell’area a nord della città ed in quella di Fontanellato -Fontevivo; mentre a Reggio il territorio più ricco di acqua era tra Montecchio e Campegine (quest’ultima zona era allora soggetta a Parma).
Nel Duecento infine le entità più dinamiche e tecnicamente avanzate erano certamente le aziende ecclesiastiche legate ai monasteri: le grancie. Ricordiamo ancora che nel parmense era presente, a differenza delle altre città emiliane, il sale necessario per la trasformazione casearia prodotto dalle saline di Salsomaggiore.
Non è quindi un caso che, nella seconda metà del secolo, si trovino delle testimonianze sulla commercializzazione del formaggio al mercato di Parma. Essendo presenti tutti i mezzi necessari alla produzione di formaggi bovini di grandi dimensioni, nel 1272 troviamo delle indicazioni sulla vendita di formaggio non stagionato (recentis) che veniva venduto a pesi (1 peso = 8,2 kg).
I principali monasteri presenti tra Parma e Reggio erano 4: due benedettini (S Giovanni a Parma e San Prospero a Reggio) e due cistercensi (San Martino di Valserena e Fontevivo, entrambi nel parmense).
Il monastero di San Giovanni, fondato nel 981, era uno dei più importanti della pianura padana. Il monastero possedeva oltre 4.000 biolche di terreno per la maggior parte bonificato ed a coltura. Si può inoltre ricordare che il monastero esiste ancora e ha alcune biolche di terreno da cui trae ogni anno una produzione di vino rosso ed una di miele. Nel medioevo le sue aziende erano a nord di Parma e anche a nord-est, nel reggiano. In particolare dalla documentazione risulta che nel 1352 a Gainago il monastero aveva 100 biolche di prato sufficienti ad alimentare una cospicua mandria di bovini, ma purtroppo non sono presenti documenti che ci permettano di affermare con certezza che là fosse attivo un caseificio.
Due sono dislocati nel parmense e due nel reggiano.
Il monastero di San Prospero a Reggio era meno ricco di quello di San Giovanni, ma aveva, sin dal secolo XII, una grande azienda zootecnica, il castrum del Gualtirolo nei pressi di Campegine.
L’abbazia di Fontevivo, fondata nel 1142 dai cistercensi era destinata ad un grande avvenire agricolo, ma al momento della sua fondazione disponeva sì di 8500 biolche, ma erano da bonificare, essendo i luoghi paludosi. La donazione dei terreni all’abbazia aveva infatti come obiettivo di fare bonificare dai cistercensi, famosi imprenditori agricoli, i terreni incolti ed insalubri. Così il priore e i suoi 12 monaci iniziarono i lavori. Dopo un secolo essi erano ancora in corso, ma i monaci riuscirono a creare tre grancie che erano veri villaggi agricoli dipendenti dall’abbazia.
Nel 1298 i cistercensi, su iniziativa del cardinale Bianchi, parmigiano, fondarono un’altro monastero non lontano da Parma: l’abbazia di San Martino dei Bocci (ossia “dei rovi”), tanto a dimostrare quanto fossero incolti i luoghi) che ai primi del ‘300 disponeva di quasi 4000 biolche di superficie.
Con queste estensioni di terreno è facile arguire come le abbazie giocassero un ruolo essenziale nello sviluppo di tutta l’area parmense e reggiana.
Questo monastero fu fondato dai cistercensi nel 1298.
Dato questo quadro generale, volendo ora entrare nel merito della produzione casearia occorre ricordare che, dalla documentazione di alcuni monasteri, appare una produzione di formaggio sin dal XII secolo, ma ciò non significa che si trattasse di Parmigiano. Ricordiamo infatti che in zona era presente un fiorentissimo allevamento ovino, sia in pianura che in montagna, con piccole mandrie da cui si traeva lana, carne e formaggio.
Per una individuazione del Parmigiano con sufficiente sicurezza sono infatti necessarie alcune informazioni quali il peso della forma o la quantità del latte impiegato o il numero delle vacche necessarie per produrre una forma. La dimensione della mandria è un fattore essenziale e, dato l’alto valore delle vacche, restava evidente che solo le aziende maggiori del tempo potevano permettersi il lusso di una consistente mandria di bovine per la produzione di grossi formaggi. La tecnologia del Parmigiano inoltre, impiegando la scrematura parziale del latte presupponeva un buon livello tecnico da parte dei produttori. Tutte queste caratteristiche si riscontravano nelle grandi aziende abbaziali.
E’ il primo documento conosciuto relativo alla produzione del già allora famoso formaggio Parmigiano. Ricordiamo che il Boccaccio scrisse il Decamerone, citando il Parmigiano, proprio in quell’anno 1349. (Archivio di Stato di Parma)
Lo spoglio dei documenti ci ha permesso di rintracciare una pergamena del 1349 dell’abbazia di San Martino che ci parla della produzione di caseus da parte di due mandrie, una di 49 e l’altra di 32 vacche. In altri documenti successivi è indicata la più antica grancia del monastero in cui si produceva il Parmigiano: quella di Frassinara a partire dall’anno 1305. Sembrerebbe dunque che siano stati i cistercensi parmigiani i primi, però non dobbiamo trascurare il castrum del Gualtirolo, vanto del monastero benedettino di San Prospero di Reggio.
Nel 1306 grazie agli sforzi dell’abate Albertino Levalossio la produzione agricola era “rinata” ed ai magazzini abbaziali in città arrivavano delle grosse some di formaggio portate a dorso d’asino. In pratica la produzione è contemporanea a quella dei cugini cistercensi parmigiani. Diventa quindi difficile assegnare la palma della primogenitura agli uni o agli altri monaci od all’una od all’altra città. Di certo si sa che furono i monaci i “padrini” e che lo sviluppo di questa tecnologia fu un affare lento che procedette di pari passo con la accresciuta disponibilità economica e tecnologica delle aziende. In altre parole il Parmigiano medioevale era molto più piccolo dell’attuale.
Nel quattrocento il peso era di circa 13 chili anche se poteva oscillare notevolmente in base alla disponibilità di latte della mandria. Le forme più grosse erano le più ricercate e le più pagate.
Dal momento che le prime testimonianze sicure risalgono all’inizio del ‘300, possiamo ragionevolmente supporre che la tecnologia si fosse definita nei decenni precedenti e quindi alla fine del ‘200 come confermato dalle testimonianze precedentemente esposte. Per inciso ricordiamo che nello stesso anno in cui la pergamena sanciva il contratto per la produzione di formaggio, il Boccaccio terminava il Decamerone citando il “Parmigiano grattugiato” che potrebbe essere quello dei cistercensi o dei benedettini.
Di sicuro la piazza di Parma era la principale per la commercializzazione del prodotto che, date le sue grandi dimensioni, la sua lunga conservabilità e la sua qualità, possiamo dire che fosse “nato per viaggiare” ed infatti nel 1351 lo troviamo a Bologna e nel 1371 a Bra.
I pisani furono i primi a trasportare il Parmigiano al di fuori d’Italia nel mediterraneo occidentale.
Nel 1389 abbiamo la prima indicazione di esportazione fuori dall’Italia: i pisani infatti lo caricarono sulle loro navi dirette in Francia, Spagna e Africa del nord.
Per finire questo quadro ricorderemo che il Sercambi, mercante lucchese e seguace del Boccaccio, nel 1399 scrisse una novella ambientata a Parma in una villa detta “Bovara” dove due giovani conducevano ogni giorno le vacche a pascolare. Senza addentrarci nei dettagli del racconto, ricordiamo soltanto che questo, a quanto ci consta, fu il primo scritto a citare un rapporto sessuale con richiesta di pagamento in formaggio. Gli scritti a sfondo licenzioso, come ben si sa, erano abbastanza comuni in Toscana in quel tempo, quel che a noi preme far notare è che la città di Parma aveva già allora l’immagine di “città del formaggio”, un’ immagine destinata a durare nel tempo.