Il Duca di Parma Ranuccio I Farnese ebbe una grande intuizione degna di un sovrano moderno. Resosi conto che in uno stato agricolo la ricchezza non poteva che provenire dai prodotti della terra, si diede da fare per ottimizzare ed espandere la produzione alimentare. Sovrano assolutista e all’occorrenza spietato, ma dotato di acume, superando la mentalità del tempo che vedeva nei campi di grano la sola fonte di prosperità di un paese, favorì invece i pascoli e la costituzione di grandi vaccherie. Nel 1605 incamerò le tre vaccherie del monastero di Fontevivo, poi, dopo la gran giustizia del 1612, anche i possedimenti dei nobili decapitati, tra cui ricordiamo i Sanseverino ed i Torelli, ambedue proprietari di caseifici. Alla sua morte avvenuta nel 1622 il Duca lasciò ben 15 aziende, tra conduzione diretta ed in affitto, in cui si produceva il Parmigiano e 3 produttrici di Piacentino.
E’ un documento del notaio del duca di Parma in cui si definiva “Parmigiano” il formaggio prodotto e stagionato a Parma. (Archivio di Stato di Parma)
Per definire gli usi e consuetudini delle contrattazioni del formaggio sulla piazza di Parma e per tutelare commercialmente il suo prodotto dagli altri formaggio similari come il Piacentino ed il Lodigiano che, nelle diverse città italiane ed estere, erano confuse con il Parmigiano il Duca, o meglio il suo potentissimo tesoriere, Bartolomeo Riva, decise di ufficializzare la denominazione.
(Archivio di Stato di Parma)
Il 7 agosto 1612, data che segna l’inizio della storia della Denominazione d’Origine, oggi riconosciuta in sede europea, il notaio della Camera ducale stilò un atto in cui si diceva che il formaggio di Parma era tale quando: era “alle cassine delli infrascritti luoghi, cioè, del Cornocchio, di Fontevivo, di Madregolo, di Noceto et di simili luochi circonvicini alla medesima città di Parma”. Più oltre nel medesimo documento leggiamo: “Et che i formaggi della Fontanazza et altri luochi del Piacentino di ragione del Serenissimo Duca … son stati et sono soliti a condursi a conservare nelle cassine di Fontevivo et che se bene son stati et sono dal Piacentino nelle suddette cassine di Fontevivo, hanno però ritenuto et ritengono il nome di formaggio Piacentino, et come tali sono venduti et contrattati”.
Si può notare il rapporto prato/terreno lavorato. All’inizio dell’Ottocento l’azienda aveva ancora la stessa struttura del ‘500.
Nel 1627 le entrate dei prodotti caseari erano pari a 15.722 scudi, pari al 3,7 % delle entrate dei ducati di Parma, Piacenza, Castro (Viterbo) e degli altri feudi farnesiani sparsi nell’Italia centrale e meridionale. Il progetto di Ranuccio I non arrivò comunque a concretizzarsi compiutamente e il suo patrimonio, venuto in possesso del figlio Odoardo fu in buona parte dilapidato per far fronte alle spese belliche del nuovo duca. Odoardo ambiva solo alla gloria in guerra e così piano piano i beni della corona se ne andarono per finanziare i mercenari dell’esercito ducale, così che nel 1663 restavano solo 6 vaccherie.
Il Duca di Modena mantenne sempre un moderato interesse in campo caseario, sempre inferiore però al suo congiunto parmigiano. Nella prima metà del ‘600 negli stati estensi erano segnalate 4 “castalderie” ducali con caseificio.
I monasteri dal canto loro, erano ormai in fase di decadenza economica, ma essi tuttavia cercavano tuttavia di curare la funzionalità delle proprie aziende casearie. In questi anni assistiamo all’entrata sulla scena di un nuovo potente ordine religioso: i Gesuiti.
A costoro era affidata l’istruzione della prole delle élites dei ducati ed essi, grazie ad una preparazione culturale di prim’ordine introdussero importanti novità. Essi avevano una vaccheria a Noceto, una a Busseto e poi ne apersero una terza, più piccola vicino a Felino. Annualmente il bilancio delle loro aziende agricole era regolarmente commentato. L’amministratore faceva delle regolari “visite di governo” alle aziende ed i fattori, durante l’anno, gli facevano rapporti periodici.
Le dimensioni variarono in funzione della disponibilità del latte e della tecnologia produttiva.
Nel Settecento essi introdussero dei “libri de le vache” per effettuare dei controlli di produttività delle singole bovine il cui latte era pesato dopo ogni munta. Altro accorgimento d’avanguardia fu quello del raffreddamento del magazzino. Essi si erano accorti che il formaggio che tendeva a gonfiare, peggiorava sensibilmente nei mesi caldi, così sotto ad un salatoio di un caseificio fecero scavare un magazzino sotterraneo per mettervi le forme “tareggiate” di modo che stessero al fresco e gonfiassero di meno.
I Gesuiti però nel Settecento non erano più in auge e nel 1768 vennero perfino espulsi dal Ducato di Parma su pressioni della Corte francese. In campagna pertanto dei loro esperimenti tecnici non se ne parlò più, privando la produzione casearia locale dell’apporto più scientificamente qualificato allora presente.
Nella prima metà del settecento la vita nei ducati di Parma e di Modena era divenuta dura, vi era una guerra dopo l’altra e a sopportare il peso delle requisizioni militari erano le campagne.
Un cronista nel 1734 scrisse: Un’armata guarda l’altra: ma tutte e due le armate (austriaca e francese) fanno piangere lo stato di Parma, di Reggio e di Modena.
Oltre al Parmigiano sono presenti le ricotte e i “rebioli” di pecora sia al naturale che sott’olio.
Il problema principale per la produzione del latte, era che le vacche erano in diretta competizione con i cavalli degli eserciti belligeranti per i preziosi foraggi. Ricordiamo che in certi periodi arrivarono ad essere presenti migliaia di cavalli in spazi ristretti, e i pascoli vicini ai caseifici erano proprio i più ambiti dai reparti di cavalleria.
Al flagello della guerra vi fu poi quello delle epizoozie che furono frequenti durante tutto il secolo.
(Archivio di Stato di Parma)
La situazione generale dell’economia agricola era dunque non buona ed il Ducato di Modena, chiaramente nell’orbita illuminista di stampo asburgico, tentò di modernizzare le campagne assumendo un atteggiamento anticlericale cioè espropriando i terreni affidati ai conventi o monasteri vari dei quali vennero soppressi. Le terre resesi così disponibili erano state vendute alla allora emergente borghesia che si era lanciata nelle produzione agricola con spirito imprenditoriale.
L’economia agricola del reggiano e del modenese divenne così più competitiva, ma a farne le spese furono i contadini, specie i braccianti agricoli che si videro sfruttati con una intensità prima sconosciuta. Da qui il detto, attribuito ad uno sconosciuto contadino lodatore del bel tempo andato: “Sotto il pastorale si stava meglio”.
Nel Ducato di Parma invece il mite Duca Don Ferdinando aveva cercato di disturbare il clero il meno possibile e le campagne restarono socialmente più tranquille, ma economicamente meno competitive. La quantità e la qualità del formaggio Parmigiano prodotto a fine secolo erano in calo, mentre il Reggiano, al contrario “teneva” più che bene.
Con l’avvento del regime napoleonico e la perdita per Parma degli ultimi fertili territori di oltre Enza la crisi del formaggio Parmigiano fu cosa dichiarata, come appare dai carteggi lasciati dall’amministratore francese di Parma: Moreau de St. Méry.