Con l’Ottocento assistiamo ad enormi cambiamenti nella struttura produttiva e sociale. L’Emilia del 1899 era enormemente cambiata rispetto a quella del 1801. Da una società agricola si stava passando ad una industriale.
Il caseificio è in basso a destra, mentre il salatoio e il magazzino sono in alto a sinistra. (Archivio di Stato di Parma)
Con Napoleone i grandi possedimenti ecclesiastici vennero cancellati e le terre acquistate dalla borghesia. La tecnica agricola iniziò ad evolvere anche se con la restaurazione si assistette ad un certo ristagno, in realtà più teorico e culturale che non produttivo. Nella prima metà del secolo, sotto i duchi vi fu un certo interesse per la produzione zootecnica e l’erba medica iniziò a diffondersi. Il mercato del bestiame bovino risultava essere la maggior voce d’esportazione della bilancia commerciale dei ducati.
I caseifici erano quasi tutti “turnari”, con un conferente latte principale che era in genere il proprietario del caseificio e dei conferenti latte che erano i suoi mezzadri. I conferenti pagavano il casaro in maniera proporzionata al latte conferito e questi a sua volta pagava l’affitto al padrone.
In questo secolo vi fu la diffusione della razza bruna svizzera in pianura. Importazioni di queste vacche per la verità ce ne erano state sin dal ‘600, ma è solo alla fine dell’Ottocento che la bruna iniziò a diffondersi massicciamente, aiutata anche dalla promozione a suo favore effettuata dal prof. Bizzozero a Parma. Nel Reggiano e in montagna la “regina” era la reggiana, mentre nel Modenese il dominio della bianca era incontrastato.
Nella prima metà del secolo la produzione media delle vacche di pianura era di 770 kg di latte/capo all’anno; alla fine dell’ottocento una buona azienda di pianura aveva una produzione di 1600 kg/capo all’anno.
I capi da latte erano stimati in 38.000 a Reggio, 34.000 a Parma e 24.000 a Modena.
I caseifici nel 1869 erano 129 a Parma e 275 a Reggio; nel 1895 a Parma erano 220, mentre a Reggio, nel 1892, erano 385. Più staccata la provincia di Modena con 166 caselli nel 1894.
La grande diffusione della produzione casearia locale è comunque da inserirsi nella situazione di generalizzato sviluppo dell’industria e dell’agricoltura che ebbe in luogo in Italia a partire dagli anni Novanta.
I caseifici allora avevano come “carburante” per le vacche il foraggio e come carburante per il caseificio la legna. Restavano attivi per 120-180 giorni all’anno (quando le vacche avevano la possibilità di sfruttare l’erba) e la produzione si aggirava sulle due-quattro tonnellate per impianto. In montagna la produzione era ancora assente, sarebbe iniziata ai primi del ‘900 soprattutto grazie alle migliorate comunicazioni e mezzi di trasporto.
Nell’Ottocento il conferimento del latte al caseificio era fatto a piedi, prima con uno o due secchi e poi anche con carrelli spinti a mano. Nel primo ‘900, dato l’aumento delle quantità conferite ed anche grazie a maggiori disponibilità economiche, si iniziarono ad adoperare anche gli animali: cavalli, asini, muli, ma anche cani per tirare i carretti del latte.
Commercialmente in questo secolo la palma della qualità andò al Reggiano e, più in particolare al formaggio di Bibbiano dove nel 1868 erano attivi 14 caseifici che erano considerati i migliori per la qualità del prodotto. La “Società Bibbianese per il commercio del formaggio” fece conoscere il prodotto nelle città d’Italia e all’estero, aiutata anche dal continuo miglioramento della rete ferroviaria.
Nel 1898 erano esportate all’estero circa 250 tonnellate di Parmigiano equivalenti a circa il 10% della produzione parmense. Il Reggiano si era parimenti diffuso, tanto che in certe regioni italiane ed anche all’estero il formaggio era detto “Reggiano”.
Era ormai tempo di pensare ad una denominazione comune, visto che si trattava in pratica dello stesso prodotto. Nel 1896 infatti, la Camera di Commercio di Reggio Emilia il 10 febbraio 1896 in un ordine del giorno approvato da un’assemblea di produttori e negozianti di formaggio si propose una nuova denominazione: quella di “Parmigiano Reggiano”. La Camera di Commercio di Parma però, troppo gelosa della propria denominazione, rifiutò e le cose rimasero come erano.
La trasformazione del formaggio aveva raggiunto nell’Ottocento un discreto livello tecnico e il “Reggiano” faceva scuola venendo anche imitato fuori zona tipica, o come si diceva allora, fuori del “Protettorato” del vero formaggio di grana.
La percentuale di scarti era però ancora molto alta e tale da rendere l’attività incerta da un punto di vista economico; era dunque necessaria una svolta tecnica che sarebbe arrivata nel secolo successivo.