Di Stefano Magagnoli
Università degli Studi di Parma
Tratto da “Parma Economica” 2012 n. 3, pp. 32-43
1. L’industria di fronte ai prodotti tipici
A cavallo tra l’ultimo ventennio dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale l’industria agro-alimentare italiana conosce una fase di significativa espansione, che si collega strettamente agli albori della cosiddetta “retailing revolution”.
La transizione dei prodotti alimentari da produzione artigianale a industriale porta con sé numerosi elementi d’innovazione, che abbracciano sia le modalità con cui i consumatori si pongono di fronte al “cibo” diventato “prodotto alimentare” sia le strategie comunicative dei produttori, chiamati a elaborare nuovi schemi con cui presentare i propri beni in un mercato caratterizzato da un numero crescente di referenze; strategie che in molti casi rappresentano un punto d’incontro, una sintesi, tra tradizione e innovazione.
La necessità di individuare nuove strategie comunicative riguarda in modo particolare quei prodotti che hanno nella “tipicità” il proprio principale punto di forza, e che dal rapporto strettissimo con uno specifico territorio (con cui condividono storia, tradizione, simboli) traggono le proprie peculiarità in termini di “reputazione” e capacità competitiva.
L’industrializzazione del prodotto alimentare, e in particolare di quello “tipico”, determina quindi una situazione in cui il prodotto tipico potrebbe entrare nel cono d’ombra dell’anonimato. Rischio rilevante, che porterebbe alla dispersione di quell’universo di valori immateriali e simbolici intorno cui si definisce l’identità dei prodotti tipici, determinato da tre fattori complementari:
1. la serialità e la moltiplicazione numerica (che supera il vincolo secolare della scarsità del bene offrendo al produttore nuove opportunità di profitto) garantiscono uniformità e ripetizione costante dei risultati, ma inevitabilmente si oppongono all’unicità e all’individualità, rendendo il prodotto anonimo e meno associabile a precise specificità territoriali;
2. l’affermarsi di un nuovo modello distributivo comporta la necessità di confezionamento del prodotto, processo che cela il contenuto agli occhi del consumatore e lo disperde negli affollati punti vendita di un mercato geograficamente sempre più ampio, e proprio per ciò proporzionalmente sempre meno capace di distinguere e apprezzare le specificità di un prodotto tipico;
3. il prevalere della marca sul prodotto, e sul nome del produttore: si tratta di un’evoluzione capace nel tempo di produrre valore, ma che nelle fasi iniziali rischia di mettere in ombra, di occultare, il differenziale positivo di un prodotto tipico.
L’industria agro-alimentare di prodotti tipici si trova dunque a fronteggiare questa situazione in numerosi modi, variabili a seconda della natura del prodotto e dello specifico momento storico, tenendo conto delle continue e rilevanti trasformazioni che abbracciano l’arco del Novecento. Prima di vederli nel dettaglio, possiamo però enunciarli in modo sintetico: la costante innovazione dell’imballaggio, trasformatosi via via in packaging dotato in modo crescente di specifiche valenze “comunicative”; il crescente ricorso alla comunicazione pubblicitaria per “mostrare” ai consumatori le “virtù” del prodotto; la costruzione di un canone narrativo (che abbraccia i linguaggi del packaging comunicativo come pure della comunicazione pubblicitaria) fondato sulla presentazione dei valori della tradizione (che permeano il prodotto) e del richiamo alla sedimentazione di una “storia lunga” (che ha generato il prodotto) ancorata a un preciso territorio.
Gli elementi costitutivi di questo canone sono ovviamente il prodotto di un disegno strumentale, spesso risultano “inventati”, frequentemente sono invece il risultato di un “adattamento” che miscela valori evocativi molti forti, quali antichità, storicità e naturalità, rappresentati e trasferiti al consumatore da paesaggi, racconti, volti del passato, luoghi storici.
2. Il marketing del Parmigiano Reggiano fra tradizione e innovazione
L’evoluzione degli strumenti di marketing del Parmigiano Reggiano nell’età contemporanea può essere suddivisa in due macro-periodi:
a)dagli anni Sessanta-Settanta dell’Ottocento sino alla vigilia della Seconda guerra mondiale, in cui si registra l’inizio della produzione industriale del formaggio e la lenta ripresa della sua diffusione sui mercati dopo l’arretramento settecentesco;
b) dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, fase in cui ha inizio la ripresa dei mercati dopo la brusca battuta d’arresto (misurabile sia in quantità che in qualità) provocata dagli eventi bellici.
In linea di estrema sintesi, si può affermare che in ambedue i periodi l’esigenza principale cui ci si trova a dover fornire risposta è sostanzialmente la medesima: riaccreditare il prodotto dopo una fase di difficoltà, rivitalizzare il settore produttivo locale, riconquistare la fiducia dei mercati attraverso la promozione pubblicitaria del prodotto.
Di fronte a esigenze sostanzialmente similari (benché diverse ne siano le cause) si assiste però a strategie comunicative relativamente difformi, da contestualizzare tuttavia all’interno delle specifiche situazioni determinate dal differente livello di integrazione dei mercati e dalla diversa strutturazione del sistema dei consumi.
3. La ripresa produttiva dell’Ottocento e i primi strumenti di comunicazione
L’espulsione dei Gesuiti dal Ducato di Parma nel 1768, arreca gravi danni al sistema di produzione del formaggio grana di Parma. Abili innovatori delle tecniche produttive, essi avevano dato un impulso importante alla produzione e al miglioramento della qualità del prodotto. L’economia parmense, peraltro, è esposta per tutto il Settecento alla crescente competizione del Ducato di Modena, che modernizza le tecniche di produzione, permettendo all’agricoltura modenese e reggiana di divenire un’agguerrita concorrente di quella parmense, che perde in competitività e vede diminuire quantità e qualità del prodotto. L’amputazione territoriale subita con la dominazione napoleonica arreca peraltro ulteriori danni alla filiera produttiva del grana di Parma, poiché sottrae al dominio ducale i territori del Lodigiano e del Bibbianese (corona pedemontana di Reggio Emilia), due aree che storicamente avevano contribuito alla reputazione del prodotto.
Una parziale ripresa si registra nei primi decenni dell’Ottocento, caratterizzati da un’evoluzione delle tecniche agricole cui corrisponde un significativo incremento della resa lattea del bestiame (da 750 a 1.600 kg/annui per vacca), grazie anche all’introduzione della razza Bruna svizzera. Pur in presenza di un significativo rinvigorimento del settore caseario, per tutto l’Ottocento continua a spiccare sui mercati la qualità di grana “reggiano” e in particolare dell’area di Bibbiano, dove nel 1868 operano 14 caseifici sostenuti dall’attività della Società bibbianese per il commercio del formaggio, che si fa carico della promozione del prodotto nel mercato interno e in quello internazionale.
In realtà, sul finire del XIX secolo, coesistono sul mercato del grano due prodotti sostanzialmente equivalenti, cui si affiancano le “imitazioni” (molto simili peraltro) realizzate nel Modenese e in alcune aree del Bolognese e del Mantovano. Una situazione di ambiguità e frammentazione che rischia di indebolire il potenziale competitivo del prodotto, superata soltanto negli anni Trenta del Novecento con la costituzione del Consorzio del Grana Tipico.
Nella seconda metà dell’Ottocento si assiste dunque alla ripartenza del settore produttivo del formaggio grana, messo di fronte a una duplice necessità: a) l’introduzione di profonde innovazioni delle tecniche di lavorazione; b) la definizione di un’efficace strategia comunicativa per riposizionare il prodotto sui mercati incentrandosi sulla valorizzazione della sua “reputazione”.
Per tutta questa prima fase la strategia adottata fa leva sul prestigio del marchio del singolo produttore. Le forme di grana sono ancora le “forme nere” della tradizione sulle quali viene affissa una piccola placca metallica con il nome dell’impresa produttrice (figura 1).
Rilevanti appaiono gli investimenti nel campo della cartellonistica nei primi decenni del Novecento, tra cui spiccano alcune vere e proprie opere d’arte, come quelle di Achille Luciano Mauzan per la ditta Bertozzi (figura 2) e di Gino Boccasile per la ditta Tavella (figura 3), senza dimenticare le affiches anonime, ma di spiccato buon gusto, realizzate per la ditta Pelagatti, che si configura come l’impresa pioniera nel campo della commercializzazione del parmigiano in età contemporanea (figure 4 e 5).
Gli stilemi comunicativi di Mauzan e Boccasile, antesignani del futuro marketing, si caratterizzano per un’insistenza quasi maniacale sull’elemento sensoriale dell’olfatto. Nella pubblicità di Boccasile è il cuoco dal viso porcino a perdersi estasiato tra le braccia della forma di parmigiano. Occhi chiusi per conferire al senso olfattivo assoluta priorità, lo chef sembra aprirsi alla concupiscenza carnale col parmigiano, pregustando col naso quegli aromi sapidi e speziati che più tardi avrebbero soddisfatto anche il suo gusto, metaforicamente rappresentato dalle labbra strette e protese a invocare dal prodotto il bacio tanto atteso. Nell’altrettanto suggestivo manifesto di Mauzan (dedito in questi anni a un’intensa attività pubblicitaria sia in Italia che all’estero; attività che ci ha consegnato numerose decine di prodotti dall’elevatissimo spessore comunicativo) troviamo invece il parmigiano al centro dell’attenzione olfattiva di tre uomini dal naso enorme. Evocativa come la precedente, questa scena si caratterizza per una maggiore “materialità”. I volti dei tre uomini, che evocano inconsciamente protagonisti rabelaisiani se non addirittura gli anziani viziosi dei racconti del marchese De Sade, appaiono infatti accaldati ed eccitati dall’odorosa vicinanza del formaggio. Pronti a sfamarsene, appagano però prima collettivamente i loro bisogni olfattivi che fanno crescere il desiderio del consumo.
La pubblicità di Pelagatti propone invece una stretta equivalenza tra Parmigiano e lusso. Si tratta di un’assonanza esplicita, che mostra il maître di un ristorante per l’alta borghesia che grattugia un’abbondante spolverata di formaggio su una pietanza, probabilmente proprio quella “pasta al sugo” che a cavallo tra Otto e Novecento cessa di essere prerogativa della cucina popolare e viene ammessa tra le ricette della “buona” società borghese. Lusso che diviene quindi un importante strumento di comunicazione. Mercato del lusso che in questa fase storica è probabilmente il target primario dei produttori e commercianti delle “forme nere” marchiate e cui in fin dei conti allude anche la figura del “cuoco porcino” col tocco di Boccasile. Lusso e distinzione – ma anche evocazione di un affresco parigino, col muretto in mattoni su cui stanno accucciati una forma di grana e un gatto bianco dallo sguardo malizioso – che sono comunicati anche con le medaglie dei premi ottenuti e le onorificenze, come mostra la cartolina dell’impresa Pelagatti, che sulla reputazione basa molta parte della propria strategia comunicativa (figura 6).
4. Il marketing del dopoguerra
L’inizio di un’effettiva strategia comunicativa del prodotto si registra agli inizi degli anni Sessanta, in concomitanza dell’allargamento dei mercati determinato dal boom economico, facendo leva anche sui “nuovi media” quali radio e televisione. Tuttavia, già verso la metà degli anni Cinquanta (figure 7 e 8) sono da registrare alcuni importanti segnali della volontà del Consorzio di promuovere l’immagine del Parmigiano sui mercati. Possiamo comunque notare che si tratta di forme comunicative ancora molto “primitive”, incentrate su un generico richiamo alla genuinità e al rapporto di fiducia face-to-face tra venditore e consumatore e imperniate su tre elementi fondamentali: a) la reputazione universale del prodotto (“Tutto il mondo conosce e apprezza il Parmigiano Reggiano”); b) il richiamo alla genuinità della lavorazione artigianale (“La buona riuscita di una ricetta dipende […] dalla genuinità delle materie prime”); c) la garanzia offerta dal marchio collettivo del Consorzio (“Solo il marchio di garanzia garantisce l’origine e l’autenticità”).
Si può tuttavia osservare come gli strumenti di persuasione siano molto flebili. Assente è la definizione precisa di un canone comunicativo in grado di scongiurare il rischio dell’anonimato del prodotto. Nel 1953 non c’è nessuna immagine; nel 1954 si riproduce quella del formaggiaio tradizionale che offre alla consumatrice un anonimo pezzo di formaggio. Assente appare, inoltre, un richiamo esplicito alla dimensione territoriale. Dove sono Parma, Reggio Emilia o la Pianura Padana? L’indirizzo del Consorzio è confinato in un pay-off dall’efficacia discutibile, che più che a una funzione evocativa o suasiva sembra corrispondere alla funzione di “firmare” la comunicazione, così come si firmano le fatture di vendita o la carta intestata.
Da sottolineare infine l’assenza di qualsiasi richiamo alla lunga tradizione del prodotto. Probabilmente si tratta della scelta di “destoricizzare” il prodotto nella convinzione che un packaging pubblicitario “industriale” possa risultare più efficace, tanto più in un momento storico in cui le campagne, simbolo del passato, stanno scomparendo. Celebrazione del progresso, dunque, affidata all’immagine di un prodotto “moderno”, acquistato da una donna della borghesia cittadina. In filigrana, la rappresentazione della città che sta soppiantando la campagna.
5. L’universo comunicativo del boom economico
Nel 1962, uno dei primi passaggi radiofonici attraverso la voce di Giorgio Gaber associa il Parmigiano Reggiano alla “ballata di un antico e nobile formaggio da sette secoli famoso […] con due secchi di buon latte si fa un chilo di formaggio genuino e prelibato […] chi lo mangia è un uomo saggio, son le forme garantite da un inciso marchio a fuoco, è il marchio che più vale, ce lo dice ogni buon cuoco”.
Al di là dell’impianto metrico un po’ claudicante, tre sono gli elementi da segnalare: il richiamo al suo antico lignaggio di prodotto di lusso; la sottolineatura della genuinità e delle tecniche di lavorazione artigianali; il prodotto è garantito dal Consorzio con la marchiatura a fuoco. Più sofisticata appare la comunicazione dei cartelloni pubblicitari e delle inserzioni sulla stampa.
Nella campagna del 1963 (figura 9) compare esplicitamente il richiamo alla tradizione (“da sette secoli un gran formaggio”). Non è ancora un canone narrativo compiuto, ma si colmano le lacune del passato. Al “moderno” si affianca la “tradizione”, raffigurando per la prima volta un esplicito sincretismo fra tradizione e innovazione.
Complessivamente, è un manifesto molto elegante ed estremamente equilibrato. La parte testuale riporta un’unica head-line: “Parmigiano Reggiano: da sette secoli un gran formaggio”. Da notare che non ci sono elementi testuali che distraggano da quest’asserzione, che apostrofa molto schiettamente il consumatore, lasciando implicita l’ipotetica conclusione (“… e quindi vedete voi…”). Significativa anche l’elisione della sillaba finale di “grande”. Quel “gran” utilizzato nel testo non solo conferisce musicalità e ritmo alla frase, ma “gioca” anche con l’allusione a “grana”, storica denominazione del Parmigiano, ma anche il nome di quello che ne sarebbe diventato il principale concorrente (Grana Padano).
Cromaticamente, le tre componenti (nero della crosta, giallo paglierino del formaggio, rosso della campitura di sfondo) si “impastano” molto bene tra loro, risultando molto eleganti e facendo sì che l’insieme iconografico evochi inconsciamente la percezione visiva di un interno abitativo borghese. È in questo modo che la tradizione (rappresentata nel testo) e l’innovazione (rappresentata dalla tipologia di consumatore) si incontrano felicemente e verosimilmente con notevole efficacia comunicativa.
Il messaggio del 1964, in cui si ha un significativo ricorso al tradizionale Black&White, appare invece di notevole complessità. Numerosi sono infatti gli elementi da sottolineare (figura 10):
1. si dissocia il gradimento del gusto dall’azione del consumo (“comprarlo è già pregustarlo”). Prima ancora di utilizzare la sensorialità gustativa, il consumatore trae piacere dall’atto dell’acquisto. Non siamo ancora al packaging che conferisce identità al prodotto, quel packaging capace di definire gusto e qualità prima o in assenza dell’atto del consumo, ma l’incipit del messaggio testuale vorrebbe persuadere il consumatore che è proprio così;
2. utilizzo dell’allusione alla memoria (“vi ritrovate in bocca quel suo sapore […] così stuzzicante anche alla memoria”). C’è un evidente richiamo a Proust in questa affermazione. Addentato un boccone di Parmigiano Reggiano il sapore stuzzica nel consumatore una madeleine: in questo modo il consumatore è attratto dal gusto del prodotto, ma anche dall’associazione a qualche emozione positiva del passato;
3. il prodotto si “sdoppia” (“come condimento o come formaggio da tavola”): al tempo stesso il Parmigiano è cibo e condimento; specie per i consumatori geograficamente più lontani si tratta di un piccolo “manuale d’uso”;
4. un prodotto familiare (“perché voi lo conoscete bene”): la frase suggerisce estrema familiarità, propone cioè l’immagine di un alimento conosciuto, appartenente alla memoria di tutti;
5. richiamo alla naturalità (“è un prodotto naturale, fatto oggi con gli stessi sistemi artigianali di sette secoli fa”): in questo modo si dichiara che il prodotto non solo ha sette secoli di storia, ma che anche le tecniche di lavorazione sono rimaste invariate;
6. sottolineatura dell’unicità (“unico al mondo”): il Parmigiano Reggiano è “unico” ed “eccezionale”. Si intende far leva anche su questo fattore di competizione: gli altri formaggi (i competitors) possono essere buoni, ma non sono unici;
7. fattore prezzo (“e lo pagate volentieri”): il prodotto costa più dei concorrenti. Si chiede al consumatore lo sforzo di corrispondere un premium-price perché il prodotto gratifica il consumatore e gli conferisce status sociale.
Complessivamente, il cartellone è complesso e di non immediata lettura, anche in virtù del fatto che tutti questi elementi comunicativi sono affidati al testo scritto, che risulta particolarmente lungo. Non si presta, cioè, a una decifrazione immediata. Occorre smontarlo, analizzarlo e ricomporlo. L’impressione è che l’efficacia rispetto alla funzione comunicativa sia blanda se non addirittura scarsa. Possiamo però considerarlo come la summa programmatica dell’universo comunicativo del Consorzio in questo scorcio iniziale del decennio.
Nel 1965, sempre con l’utilizzo di un elegante bianco e nero, è da segnalare una campagna pubblicitaria che fa leva su alcuni elementi significativi (figura 11). Da una parte, il già evocato radicamento in una “storia lunga” (“Il Parmigiano ha compiuto i sette secoli”), che conferisce al prodotto quell’aura di tradizione che, in questa fase, si intende utilizzare quale arma principale di competizione sui mercati. Tra le altre cose, in questo prodotto pubblicitario si fa esplicito riferimento alla presenza del Parmigiano Reggiano nella letteratura. Citando un non meglio identificato scrittore elisabettiano del 1600, si sottolinea come la reputazione del prodotto fosse in quell’epoca già consolidata, tanto da spingere i profughi di una città in fiamme, protagonisti dell’opera, a cercare in ogni modo di mettere in salvo le forme di “parmesan cheese”. Dall’altra, è degno di nota la sottolineatura di come il prodotto debba essere inteso come un ingrediente importante per la realizzazione di preparazioni alimentari. Rotoli di prosciutto, tartellette al formaggio e asparagi al formaggio diventano così le portate consigliate dai produttori di Parmigiano, che iniziano a sostituire i piatti più grevi delle tradizioni della cucina regionale italiana, segnando un punto a favore del progressivo rinnovamento dei comportamenti alimentari della nazione, alla ricerca di pasti più leggeri e più adatti alla nuova organizzazione del tempo di una società in via di rapido sviluppo. Un processo di rinnovamento in cui il Parmigiano Reggiano intende giocare un ruolo importante.
L’head-line del manifesto comparso nel 1966 è molto netta (figura 12), e introduce alcuni elementi di novità. Con la dicitura “il Parmigiano Reggiano è il marito della cucina italiana” il prodotto diviene sessuato e acquisisce una precisa identità associata al ruolo sociale di “marito”. Giocando sulla funzione evocativa radicata nella cultura tradizionale, il prodotto si carica così di un ruolo importante, qual è quello che in questi anni è attribuito al “marito capofamiglia”.
Si tratta di una mimesi imperniata sul messaggio metaforico, ulteriormente rafforzata dalla comunicazione iconografica, che rappresenta il Parmigiano Reggiano “marito” accanto a una curata figura femminile, sorridente casalinga di una famiglia cittadina, alle prese con la pentola di coccio del ragù e il mestolo di legno.
Testo e immagine appaiono strettamente legati, dando vita a un messaggio “rassicurante” incentrato sui valori tradizionali della famiglia. Richiamo alla tradizione, quindi, che si incarna nel prodotto pubblicizzato. Parmigiano-marito, che si fa garante degli equilibri tradizionali a difesa dell’integrità di un modello sociale in via di progressivo sgretolamento, nel quadro di quell’ondata di trasformazioni culturali che fanno seguito al boom economico e precedono gli eventi del Sessantotto.
Emblematica anche la rappresentazione iconografica. L’accostamento del prodotto a una pentola e a un mestolo sta a indicare una precisa opzione di consumo: prima ancora che alimento primario, il Parmigiano Reggiano deve essere inteso come condimento, con cui “completare” preparazioni gastronomiche. Richiamo e indicazione del resto già presentati nelle campagne pubblicitarie degli anni precedenti.
Due anni dopo si registra un ulteriore sviluppo rispetto alla campagna del 1966 (figura 13), pur rimanendo all’interno dello stesso paradigma culturale. “Per lui che merita il meglio questo è il formaggio da tavola”. Il testo, che si sviluppa occupando sia l’head-line che il pay-off, si collega strettamente alla grafica del manifesto, che presenta due elementi centrali: il torso di un uomo seduto davanti a una forma di parmigiano, sovrastata da un piatto con uno spicchio di formaggio e il coltellino per frantumarne piccoli pezzi, e le braccia di una donna – verosimilmente la moglie – che gli cinge amorevolmente le spalle con le braccia. Singolare è l’assenza dei volti dei due personaggi, che occupano solo una piccola parte della scena ed esclusivamente con alcuni dettagli.
Pur nell’incompletezza della rappresentazione (che conferisce però centralità alla forma e al piatto), molto chiare appaiono le identità dei protagonisti. Giacca e cravatta testimoniano che l’uomo appartiene al ceto borghese cittadino, impegnato in un lavoro d’ufficio di una certa responsabilità e di altrettanto prestigio. In realtà, altro non è che un altro modo di rappresentare il “marito” comparso nel linguaggio scritto nel 1966. Accanto a lui la moglie amorevole, tratteggiata con pochi segni, che indicano l’identità della figura femminile. La fede nuziale testimonia del suo status di coniuge; il bracciale all’avambraccio destro quello di donna di famiglia benestante; le sue mani curate e le unghie smaltate, infine, dicono che non sono quelle di una persona che si occupa di lavori manuali.
Le innovazioni comunicative sono molteplici, ma analogo rimane il solco culturale entro il quale si collocano. L’evocazione della dimensione familiare rimane esplicita sebbene l’impianto comunicativo appaia più “raffinato”, facendo leva su alcuni elementi visivi di “dettaglio” (la fede, la cravatta, ecc.), e concentrando nell’incipit “per lui” la funzione associativa Parmigiano-marito, troppo esplicita e grossolana nella precedente campagna.
Un certo rilievo è invece da attribuire alla “chiusa” del testo concentrata nel pay-off, che appare in sostanziale controtendenza rispetto al passato. In questo caso il prodotto non è più proposto al consumatore esclusivamente come condimento, ma quale alimento da consumarsi come piatto principale. Si cavalca così l’onda della “modernità”, che, soprattutto per le persone non più occupate in gravosi e faticosi lavori manuali, suggerisce lunch sempre più leggeri, e compatibili con lo svolgimento di attività professionali intellettuali nelle ore pomeridiane.
Il Parmigiano Reggiano si dissocia quindi dalla pasta al sugo, e acquisisce una propria identità di “portata principale”, che, magari accompagnata da una porzione di verdure o di frutta, può costituire da solo un pasto completo.
Nel 1969 l’Italia è attraversata da un’ondata senza precedenti di proteste operaie, che fanno seguito alle perturbazioni sociali dell’anno precedente determinate dalle grandi contestazioni studentesche. Nello stesso anno la comunicazione pubblicitaria del Parmigiano (figura 14) sembra strizzare l’occhio a quella parte “silenziosa” del paese, avversa sia all’una che all’altra manifestazione di contestazione.
“A tavola fa pranzo”: in quest’unico elemento testuale si coglie il messaggio comunicativo della campagna, che segna una sostanziale discontinuità rispetto agli stilemi del passato. Sparisce l’issue della famiglia, come pure la centralità della figura maschile del marito quale perno della comunicazione. Nel bel mezzo della protesta sociale si assiste a un ribaltamento di piani, con la comparsa nel manifesto pubblicitario di un gruppo di uomini disposti lungo un tavolo su cui troneggia una forma di Parmigiano Reggiano. Numerosi sono gli elementi da sottolineare:
1. si tratta di uomini adulti vestiti in abito scuro da sera, camicia bianca e papillon nero. Uomini d’affari, colti e benestanti, che si ritrovano a un convivio gastronomico a margine di una riunione d’affari (la mancanza di personaggi femminili accredita quest’ultima considerazione: non solo si registra l’assenza delle “mogli”, ma anche delle “segretarie” escluse di norma dalle cene di lavoro “ai vertici”);
2. l’iconografia allude però alla tradizione, riproducendo l’immagine classica dei matrimoni o degli incontri familiari dell’epoca, in cui la comitiva era ripresa dal posto del capotavola;
3. la forma di Parmigiano siede al posto dell’ospite più importante (il capotavola) e conferisce al prodotto un’“autorevolezza” mai attribuitole in passato. Il Parmigiano Reggiano si fa ospite divenendo alimento che siede a tavola “alla pari” con gli altri invitati importanti. E tutto ciò avviene in un convivio di “alto rango”, testimoniando così dell’importanza e del lignaggio che s’intende conferire al prodotto;
4. propone un preciso target di consumatori: professionisti “in carriera”, del tutto insensibili al fattore prezzo del prodotto.
6. L’isola del tesoro
Nel 1971 viene varata la prima campagna pubblicitaria che, in modo esplicito, fa leva sulle “virtù” del territorio per promuovere il prodotto. È una campagna articolata a diversi livelli: da una parte la tradizionale comunicazione cartellonistica; dall’altra il ricorso, come negli anni passati, al format televisivo Carosello proponendo uno spot televisivo, però, che questa volta appare in piena sintonia con i contenuti della comunicazione a stampa.
L’impianto comunicativo è semplice ma al contempo sofisticato (figura 15): la forma di Parmigiano Reggiano, già tagliata per mostrare la grana sabbiosa della pasta del formaggio, è adagiata su una pergamena che riproduce la mappa della zona d’origine del prodotto, che comprende i territori di Parma, Reggio Emilia, Modena, una parte del Mantovano e del Bolognese.
Pochi elementi, che conferiscono tuttavia grande forza comunicativa allo strumento pubblicitario, che fa leva su alcuni elementi simbolici per trasmettere al consumatore il senso di “tradizione” e di “lunga storia” del prodotto. Pochi elementi-chiave, decisivi però per mostrare che non si tratta soltanto di un prodotto alimentare, ma che si sta “celebrando” un’entità su cui convergono le virtù migliori di un territorio ricco e prosperoso, immortalato da numerosi resoconti di viaggio già nell’epoca del Grand Tour in Italia.
La frase dell’head-line (“L’isola del tesoro: la zona d’origine del Parmigiano Reggiano”) è evidentemente assertiva e può essere compresa solo se messa in relazione con l’immagine sottostante. È tuttavia significativo che a tale frase sia assegnato il compito di definire il “genere” comunicativo, fornendo al destinatario della pubblicità gli strumenti necessari per decifrare e interpretare i segnali metaforici proposti dall’iconografia:
1. si noti anzitutto la mappa: è un rotolo di pergamena antica (aperto solo in parte con il formaggio a impedirne l’arrotolamento) su cui è disegnata (con i tratti e i colori degli antichi mappali) la zona di produzione del Parmigiano Reggiano. L’effetto è di sicuro impatto emozionale: l’isola del tesoro – si afferma tra le righe – non è una componente del messaggio pubblicitario, ma rappresenta un oggettivo e inconfutabile dato storico, con profondi ancoraggi nella memoria e nella storia;
2. un elemento di potente associazione evocativa è costituito dal contrasto creato tra il colore pastoso e un po’ irregolare della pergamena e la sabbiosità altrettanto irregolare del Parmigiano Reggiano. Si tratta di un’associazione evocativa che si intende suscitare nell’inconscio del consumatore sotto forma di assonanza cromatica. La triangolazione è semplice: la mappa testimonia del radicamento del prodotto in un dato territorio che ha alle spalle una “lunga storia”, fatta di simboli e tradizioni. Tutto ciò trova conferma nella pergamena antica mostrata su cui è adagiato il prodotto tagliato, il cui “cuore” – la parte destinata ad appagare il gusto del consumatore – si presenta con gli stessi colori e sembra quasi costituito della stessa materia della pergamena. O meglio, in un processo di mimesi, è la pergamena che sembra fatta di parmigiano. Alla fine di questo processo mentale il cerchio si chiude, e l’obiettivo di “vendere” la tradizione prima ancora del prodotto è sostanzialmente raggiunto.
Una rielaborazione della campagna del ’71, con l’aggiunta di alcuni nuovi elementi evocativi, fa la sua comparsa nel 1973, con l’utilizzo di un testo che esplicita quali siano le ricchezze disponibili nell’isola del tesoro: “dall’isola del tesoro l’antica genuinità del Parmigiano Reggiano”. L’elemento innovativo è rappresentato dalla stretta associazione proposta tra tradizione, genuinità e territorio. La ricchezza dell’isola, quindi, va oltre l’elemento sensoriale del gusto e abbraccia anche gli aspetti legati alla salubrità del prodotto. Del resto, è proprio in questi anni che il consumatore, dopo essersi saziato con abbondanza durante il boom economico, sta iniziando a interrogarsi sui contenuti salutistici degli alimenti. Un cambiamento ovviamente molto importante, che viene colto dai produttori di Parmigiano e che accompagnerà anche alcune campagne negli anni successivi.
L’iconografia della campagna del 1973 presenta però altre innovazioni, che è importante sottolineare, sia per la loro valenza evocativa, sia per il comportamento alimentare che suggeriscono. Osservando la fotografia si può infatti notare la presenza, accanto alla punta di formaggio, di altri alimenti: un grappolo d’uva, una noce, una nocciola, una pesca e alcune bacche di ribes. Si tratta ovviamente di un’indicazione gastronomica (che suggerisce peraltro un consumo del Parmigiano estremamente innovativo, destinato a essere protagonista non solo di pasti “convenzionali”, ma anche di momenti conviviali meno formali in cui il formaggio può assumere la funzione di appetizer o di complemento di un happy hour fuori programma) ma non solo.
L’accostamento di questi prodotti alimentari – oltre all’innegabile efficace cromatica – ha infatti la capacità di evocare rappresentazioni pittoriche del passato, estremamente suggestive, come lo sanno essere tutte le nature morte della tradizione figurativa europea. In questo caso, però, il messaggio subliminale contenuto nella fotografia trascende l’emozionalità contenuta in una “natura morta”, insinuando nel consumatore la curiosità di accostare alla sapida dolcezza di una scaglia di Parmigiano il retrogusto amarognolo del gheriglio di noce, per sperimentare nuove sensazioni gustative.
In realtà, si tratta di un messaggio iconografico che cerca di stimolare curiosità: quale sarà il gusto della pesca con il Parmigiano? E quello della nocciola? E attraverso queste curiosità gettare una nuova passerella tra tradizione e innovazione, suggerendo inoltre l’estrema versatilità del formaggio di Parma.
7. Tesori e pirati negli sketch di Carosello
Sulla scia della spenta serie “Il torneo” trasmessa da Carosello nel 1968 (siparietti in cui sono rappresentate improbabili analogie tra il mondo d’oggi e i tornei medievali: comunque un tentativo di creare un ponte virtuale per ancorare il prodotto all’olografia del passato), tra il 1969 e il 1972 il Consorzio del Parmigiano Reggiano proietta il binomio comunicativo Parmigiano-tesoro sulla scena televisiva, commissionando prima all’agenzia Linea e poi alla Lambert la realizzazione di una nuova campagna promozionale da trasmettere sempre dentro il principale contenitore pubblicitario della TV di Stato.
Si tratta della serie a cartoni “Briganti mattacchioni”, impersonata da quattro improbabili briganti della tradizione italiana (l’oculista di Benevento, l’indovino di Gallarate, ecc.) alla costante ricerca di un tesoro da rubare. I protagonisti tentano di realizzare il proprio intento introducendosi in un accampamento di soldati per rubare le paghe, oppure cercando di forzare il portone d’ingresso di una fortezza, o anche provando ad introdursi in una piramide egizia per forzare la stanza segreta del tesoro. I quattro briganti mattacchioni, però, incarnano in realtà la figura classica degli antieroi dei cartoon e, come il più celebre Willy il Coyote, finiscono sempre vittima di ciò che hanno escogitato. Pestati, rincorsi e malconci dopo un’esplosione imprevista, i quattro mattacchioni si danno a una rapida fuga, lasciando spazio al “codino” finale dello spot nel quale vengono esaltate le vere virtù della padana “isola del tesoro”, che da tanti secoli rappresenta la patria del Parmigiano Reggiano. L’unico vero “tesoro” per cui valga la pena darsi così tanto da fare.
L’efficacia della serie è molto elevata, grazie soprattutto alla bellezza delle musiche, all’originalità delle avventure e alla grande originalità dell’idea comunicativa. Forte ed esplicito risulta il canone narrativo generale, che fa appello alla storia e alla tradizione per apostrofare il consumatore, senza tuttavia rinunciare all’ironia (incarnate nelle disavventure dei protagonisti) e alla giocosità, riuscendo perciò a proiettare nello strumento pubblicitario quei segni che indicano l’ancoraggio del prodotto alla tradizione senza scadere nel retorico e nell’artefatto. Understatement comunicativo estremamente efficace e suggestivo, come è del resto testimoniato dalla vita relativamente lunga della serie.