Il formaggio delle Abbazie: l’invenzione del grana

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Di Giovanni Ballarini

Il paesaggio creato dalle Abbazie

Solo una cinquantina di anni fa, oggi molto è cambiato, sorvolando la pianura padana si sarebbe scoperto che era magicamente cosparsa di aree verdi che dal territorio milanese arrivavano a quello bolognese, dove chiare e dolci acque di risorgiva scioglievano la neve invernale e irrigavano i campi arsi dalla calura estiva, formando uno scenario inimitabile, oggi scomparso per l’intensa irrigazione artificiale. Un paesaggio simile a quello scoperto dai monaci che quasi mille anni fa arrivarono da Cluny in un territorio in gran parte desolato e selvaggio e che Sant’Ambrogio in viaggio da Milano a Ravenna trovò disseminato di cadaveri di città semidistrutte (semirutarum urbium cadavera), ma che loro valorizzano con la fondazione di una catena di Abbazie, ognuna situata dove affioravano le acque. Con la preghiera, ma soprattutto con il lavoro, questi monaci dell’ora et labora modificarono il paesaggio della pianura e il modo di mangiare e festeggiare a tavola, prima dei suoi abitanti e poi dell’Italia e del mondo.

La serie di Abbazie, distanziate tra loro da una giornata di viaggio a piedi, circa venticinque o trenta chilometri, con nomi di grande calma, come Chiaravalle e Valserena, ma anche Fontevivo, erano fondate vicino alle acque di sorgente, in luoghi come Fontanafredda, Fontanalata o grande fontana (oggi Fontanellato), Pratofontana e similari. Acque pure di lontana origine appenninica e sottoposte ad una lunga filtrazione sotterranea prima di riapparire come acque di risorgiva, tiepide d’inverno e fresche d’estate. Acque che assicuravano una buona irrigazione delle terre e un buon foraggio già all’inizio della primavera, in marzo, in campi detti di marzite o marcite, che nulla avevano di marcio, ma solo di vita primaverile.

Avere un buon foraggio già a marzo era un bene prezioso per i cavalli degli eserciti, che potevano iniziare le guerre prima degli altri. Per i pacifici monaci delle abbazie, avere foraggio invernale e per tutta l’assolata e calda estate era un’ineguagliabile occasione per alimentare il bestiame che doveva lavorare i campi. Inoltre, un’abbondante disponibilità di foraggio permetteva un sicuro parto primaverile e la produzione di latte per tutto il periodo estivo. Un latte vaccino grasso e abbondante che non poteva essere sprecato, ma che andava conservato con le tecnologie che i monaci avevano sviluppato nella florida Borgogna durante i radiosi anni dell’autunno del medioevo.

Le grance delle Abbazie cistercensi

Pur propugnando la povertà, le abbazie cistercensi hanno vigne, regolano pascoli, boschi e corsi d’acqua e organizzano un sistema economico basato sulle grance.

La parola grangia o grancia deriva dall’antico termine latino granea, e quindi grangiarius, dal quale deriva il francese grange (granaio) e lo spagnolo granja (fattoria). Questo termine originariamente indica una struttura edilizia utilizzata per la conservazione del grano e delle sementi. Più tardi il termine definisce il complesso di edifici costituenti un’azienda agricola, assumendo anche il significato di una vasta azienda produttiva, per lo più monastica. Ancora oggi è possibile trovare delle grange più o meno conservate in tutta l’area occitana (Italia nord-occidentale, Francia meridionale, area pirenaica), ma anche in Italia centro-meridionale.

Il termine grangia sembra essere stato diffuso in Italia dai Cistercensi, ordine religioso di origine francese che nei secoli XII e seguenti, soprattutto nella pianura padana, è protagonista di una rinascita agricola, con grandi opere di bonifica in zone acquitrinose e con il dissodamento di terre incolte attraverso lavori eseguiti usando bovini da lavoro. Questi monaci, in generale in gruppi di dodici, fondano le abbazie, ognuna delle quali è dotata di una grancia. Le terre che la grancia recupera all’agricoltura garantiscono una buona produttività, anche perché i monaci cistercensi introducono la rotazione triennale delle coltivazioni dei cereali e leguminose, anche da foraggio per il bestiame bovino.

I Cistercensi organizzano le loro proprietà agricole per mezzo di aziende agrarie che dipendono dal monastero e che denominano grange, termine che indica la struttura edilizia che normalmente risente dei canoni edilizi d’oltralpe e la struttura organizzativa. La grangia, emanazione dell’abbazia, ha il compito di provvedere alla fornitura di generi alimentari per i monaci dell’ordine, in primo luogo il grano, ed ha una struttura che si tramanda nella cascina lombarda: in un grande cortile da un lato vi sono i fabbricati destinati alle abitazioni, dall’altro quelli destinati alle stalle, magazzini ed officine e, data l’origine religiosa, non manca mai una cappellina. La grangia è posta al centro dell’unità agricola che non deve distare più di una giornata di cammino dall’abbazia madre ed è guidata dai conversi che, come dice il nome, sono persone convertite che prendono i voti ma che non hanno il grado dei monaci. I conversi, oltre a guidare i lavori nella grangia, hanno regole di preghiera e soprattutto ogni domenica, quando vige l’obbligo di non lavorare, devono recarsi nell’abbazia per seguire le funzioni religiose.

Le grange sono un sistema economico molto efficiente che valorizza i terreni e che fa dei cistercensi dei pionieri nelle tecniche di bonifica, coltivazione e allevamento del bestiame, soprattutto bovino, con una produzione che supera abbondantemente il fabbisogno dei monasteri. I prodotti in eccesso sono infatti messi sul mercato, la ricchezza prodotta è reinvestita nelle attività agricole e tra i prodotti agricoli assume un ruolo di grande rilievo il formaggio di latte bovino a lunga conservazione.

Formaggi grana dei monaci cistercensi

Nelle grange i bovini sono necessari per dissodare i terreni incolti, per lavorare i campi e per i trasporti. Questi animali sono allevati in stalle con una riproduzione che si basa sul parto primaverile, al quale segue una produzione di latte che non può essere usato dall’Abbazia o venduto se non è trasformato in formaggio o burro. Se in area padana è ben nota la tecnica di produzione del cacio di latte caprino o ovino, altrettanto non succede per il latte bovino, soprattutto se questo è in quantità elevate. Tecniche casearie per questo tipo di latte sono però note ai monaci francesi che nelle grance producono formaggi di grandi dimensioni ed a lunga stagionatura e conservazione.

Per conservare a lungo il formaggio di latte bovino, le forme devono essere di grandi dimensioni, maggiori rispetto a quelle che si ottengono con il latte di pecora. Con la lunga conservazione, i lenti processi di maturazione portano alla formazione di piccoli granellini nella pasta del formaggio (che oggi sappiamo essere formati di cristalli di tirosina e calcio). Questa caratteristica porta all’attribuzione, a questo particolare formaggio, del nome di formaggio grana o semplicemente grana.

Il formaggio ha una produzione stagionale, da San Giuseppe (19 marzo) alla Festa dei Defunti (2 novembre), con una caseificazione giornaliera che unisce il latte della mungitura serale a quello della mungitura mattutina. È un formaggio ottenuto da latte crudo e si produce tagliando la cagliata con una croce, come vuole la sacralità del lavoro dei monaci e dei loro conversi. Nella produzione di questo formaggio Lodi acquista una particolare rinomanza, mentre Parma l’acquisisce per la sua diffusione, in Italia e all’estero. A Firenze il formaggio parmigiano è celebrato da Giovanni Boccaccio nel Paese di Bengodi, mentre a Parigi diviene noto con la denominazione di Parmesan.

Il formaggio dei monaci, ora noto come Parmigiano Reggiano, Grana Padano ed anche Trentingrana, con una lunga maturazione diviene da grattugia. Il grana però è soprattutto ricco di componenti, come l’acido glutammico, che esaltano gli altri sapori, e per questo ha dato una nuova impronta alla cucina dell’Italia Settentrionale, ad iniziare dalle paste ripiene da brodo o asciutte. Cosa sarebbero i tortellini, cappelletti, anolini, tortelli e tutta la cucina della bassa Lombardia e dell’Emilia, ma anche del resto della Italia, senza un formaggio nato e sviluppato circa un mille anni fa dai monaci che avevano scoperto un uso pacifico dei foraggi coltivati con le fresche e dolci acque delle risorgive?

Tratto da “Ruminantia” – 26 ottobre 2021, per gentile concessione dell’Autore

L’Autore

Giovanni Ballarini, dal 1953 al 2003 è stato professore dell’Università degli Studi di Parma, nella quale è Professore Emerito. Dottor Honoris Causa dell’Università d’Atene (1996), Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, è stato insignito dell’Orde du Mérite Agricole della Repubblica Francese. Premio Scanno – Università di Teramo per l’Alimentazione nel 2005, Premio Giovanni Rebora 2014, Premio Baldassarre Molossi Bancarella della Cucina 2014, Grand Prix de la Culture Gastronomique 2016 dell’Académie Internationale de la Gastronomie. Da solo e in collaborazione con numerosi allievi, diversi dei quali ricoprono oggi cattedre universitarie, ha svolto un’intensa ricerca scientifica in numerosi campi, raggiungendo importanti e originali risultati, documentati da oltre novecento pubblicazioni e diversi libri. Da trenta anni la sua ricerca è indirizzata alla storia, antropologia e in particolare all’antropologia alimentare e anche con lo pseudonimo di John B. Dancer, ha pubblicato oltre quattrocento articoli e cinquanta libri, svolgendo un’intensa attività di divulgazione, collaborando con riviste italiane, quotidiani nazionali e partecipando a trasmissioni televisive. Socio di numerose Accademie Scientifiche è Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina e già Vicepresidente della Académie Internationale de la Gastronomie.