Petrarca e il formaggio Parmigiano

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Di  Piero Camporesi

Il poeta Francesco Petrarca (1304-1374) ammirava l’ingegnosità degli idraulici padani maestri come pochi, forse senza rivali, nel governo delle acque. Insuperabili non solo nell’irrigazione dei campi, ma anche nella costruzione di macchine e congegni idraulici per azionare gualchiere, mulini, cartiere, mantici, altiforni e nella realizzazione di chiuse e canali navigabili. Poteva viaggiare da Bologna a Venezia o da Pavia a Padova senza salire a cavallo, servendosi delle vie d’acqua che solcavano come vene il grande corpo della madre terra cisalpina.

Aveva assistito al prodigio del liquido latte trasformato, metamorfosi ingegnosa, in solide, compattissime «forme». A Parma, nel Lodigiano, nel Piacentino, «per la grand’abondanza de ’l latte che cavano dagli animali del detto paese, fanno le forme di cascio alcuna volta tanto larghe e grosse che risultano per diametro larghe due piedi e mezzo e grosse oltre tre onze, del peso di duecento libre commune. Certamente – anche Leandro Alberti ne era stupito — par cosa maravigliosa da considerare, come sia possibile a trattare nella calcara tanta copia di latte coagulato e preso a tanta perfezione».

Conosceva la bravura dei plasmatori di caci, maestri di un’arte meccanica collegata da un filo sottile all’arte della coltivazione degli orti, alla coltura delle erbe e dei fieni. Essi creavano dal latte il formaggio come gli agricoltori, spremendo la terra, ne mungevano i raccolti. Sensibili nelle mani come scultori, scrutatori dei cicli lunari come gli astrologi e i negromanti, attenti ai venti e alle stagioni come i contadini, geometri naturali di forme tonde, enormi come le lune piene, i casari domavano nelle caldaie il liquido riottoso e lo modellavano in sbalorditive ruote commestibili.

Forme ancora più colossali venivano prodotte nei casoni e nelle cassine del territorio di Lodi, al centro di quelle campagne coltivate a caci, «pinguia» veramente e «ditia» e «dolci»: «del mondo la più bella parte» (R.V.F., 128). Qui, ad ampie distese di «frumento, siligine, miglio ed altre biade», si alternavano «larghissimi campi e prati per nutrigare gli armenti».

«Quivi sempre appareno le fresche erbette per la grand’abondanza dell’acque con le quali sono irrigati tutti questi paesi. Conciosiacosa che da ogni lato veggonsi correr le chiare acque per gli idonei condotti e canali, in tal maniera che in alcuni luoghi vedensi tre o quattro canali l’uno sopra l’altro con grand’artifìcio fatti per condurre l’acque più al basso o più ad alto, secondo il sito dei campi. Cosa veramente maravigliosa da considerare e molto utile. Laonde, tre o quattro volte l’anno, e alcune volte cinque, si sega il fieno de’ detti prati, come intervenne ne ’l mille cinquecento trenta due. E perciò se ne cava tanto latte dagli armenti, per fare il formaggio, che se ne formano tali casci che par cosa quasi incredibile a quelli non l’avranno veduto Onde nel mille cinquecento trent’uno ne furono fatte quattro cascie, o sieno quattro forme (come si dice) di tanta smisurata grandezza, per commissione di Giovan Francesco conte della Somaglia, che ciascuna di esse pesò lire cinquecento minute. Invero è cosa molto maravigliosa da considerare come fusse possibile di maneggiare tanta mole di latte coagulato, o stretto insieme, ne’ consueti vasi».

 

Tratto da: Piero Camporesi, Il padano Petrarca, in Le vie del latte dalla Padania alla steppa, pp. 98-101.