Nato a Genova in una famiglia marinara, Amos Nattini (1892-1985), dopo aver perso il padre a soli dieci anni, viene avviato agli studi commerciali, ma preferisce frequentare il porto, dove osserva cavalli e scaricatori in movimento. La passione per la pittura – ha un prozio pittore: Amos Oppizio Nattini – prende il sopravvento e a 19 anni, incoraggiato da Gabriele D’Annunzio, compone Immagini per le canzoni delle gesta d’Oltremare, che trova felice accoglienza dalla critica. Poco dopo il Vate lo chiama presso di sé a Parigi.
Rimarrà nella capitale francese fino allo scoppio della Prima Guerra mondiale, maturando uno stile figurativo classico, ma aperto agli influssi delle avanguardie. Rientrato in Italia, il Credito Italiano lo incarica della propaganda figurativa per i prestiti di guerra, dipinge vaste rappresentazioni simboliche per il Ponte monumentale di Genova e per la sede locale dell’Istituto di credito. Inizia a dipingere le tavole a colori per illustrare la Divina Commedia, che lo occuperanno per vent’anni della sua vita. Nel 1931 presenta una mostra dantesca a Parigi e centomila visitatori ne sanciscono lo straordinario successo. Dal 1923 al 1941 vive e lavora a Milano. Nel 1943 fa parte della Resistenza e viene catturato e processato dalla Gestapo, ma riesce a fuggire sull’Appennino parmense, che diverrà per lui una seconda patria. Nel 1946 viene eletto sindaco di Collecchio. Poi si ritira nell’ex convento di Oppiano di Gaiano, nella valle del Taro, dove trasforma la chiesa dismessa nel suo studio e dove morirà nel 1985.
Oltre alle raffigurazioni di cavalli e alle battaglie, di cui fu maestro, il lavoro e le attività dell’uomo trovano ampio spazio nella sua arte e sono numerose le opere dedicate al mondo dei campi e delle officine che ci ha lasciato. Il dipinto qui riprodotto, in collezione privata, databile agli anni Trenta del Novecento e ambientato in un caseificio durante la produzione del Parmigiano, ci mostra lo spazio fumoso e dinamico in cui si muovono diversi personaggi. Sulla destra un lavorante sta aprendo una fascina per alimentare il fuoco della fornace. Una donna ha appena preso l’ultimo secchio di latte, raccolto dalle vasche di riposo alle sue spalle, e lo ha versato nella caldaia dove una seconda donna – la moglie del casaro – con la “rotella” in mano, sta mescolando il latte. Al centro, il pilastro che sorregge il tetto della costruzione a pianta quadrata, sostiene anche i bracci per le due caldaie. A sinistra il casaro con lo “spino” sta frantumando rapidamente la cagliata, mentre un aiutante tiene il termometro per controllare la temperatura e una donna spegne la fiamma con una secchiata d’acqua, che si trasforma in vapore e riempie l’ambiente. Si disperderà attraverso le gelosie in cotto. Ancor più a sinistra un bidone e una zangola sono in attesa della trasformazione della panna, che riposa nel bigoncio, in burro. Alle spalle del casaro, sopra un piano in muratura, due forme del giorno prima stanno sgrondando il siero, strette nelle fascere di legno di salice. Un universo operoso si muove all’unisono per trasformare il latte della fertile campagna parmense, che si intravede dalla porta aperta, nel “re dei formaggi”. Quella che parrebbe una tavola didattica per le scuole, racconta, in realtà, una tradizione e una identità, che legano da millenni l’uomo a questa terra generosa.