Di Ubaldo Delsante
“Quell’ardita e bizzarra maniera di fabbricare, che volgarmente
chiamasi Gotica, deve riguardarsi più tosto come una corruttela
che come ordine particolare d’Architettura”
Paolo Frisi (docente a Brera, Milano, 1728-1784)
Salendo dalle Valli di Collecchio verso Sala Baganza, lungo la strada di Montecoppe, cinquecento metri prima del Ferlaro si incontra, sulla destra, l’antico caseificio di Montecoppe, segnalato anche dal consueto cartello del Consorzio del Parmigiano Reggiano, che indica lo spaccio.
Bene, seguiamo la freccia e entriamo nel cortile. Qui tutto è normale e coerente. Si sente il caratteristico “profumo” del latticello e dei suini, si vedono fabbricati riconducibili sicuramente a edilizia agricolo-zootenica, ma anche all’industria casearia. Nulla di strano, salvo alcune decorazioni su di un edificio al quale sono stati addossati altri corpi di fabbrica al punto che a mala pena di capisce cosa sia.
Lasciamo l’auto nel cortile e torniamo sulla strada, l’attraversiamo e ci voltiamo a guardare la facciata. Fatto? E cosa vediamo? Una cosa che non c’entra nulla con l’agricoltura, la zootecnia e i caseifici. Siamo infatti di fronte a un edificio dalle caratteristiche che parrebbero quello di un oratorio o di una chiesa.
Guardiamo meglio. La facciata è stile gotico o neogotico. Vedremo poi di esaminare le due possibilità, che vogliono dire secoli di differenza come epoca di costruzione. È tripartita e quindi presuppone tre navate, una centrale, più alta, sormontata da un timpano, e due laterali, più basse.
Le finestre sono ogivali, a bifore, salvaguardate da inferriate non particolarmente di valore artistico, ma insomma di un certo tono ed età.
Il paramento murario è in cotto e in ciotti di fiume, alcuni dei quali posati in modo da dar vita a figure e disegni simili a quelle che si ricontrano nelle mura perimetrali della corte di Giarola: una sorta di macromosaico, se così possiamo chiamarlo.
Non vi è nessun simbolo religioso, né una croce, né l’immagine di una Madonna o di un Santo, salvo una formellina in una nicchia sulla parte bassa a sinistra della fronte Ovest, talmente rovinata da non lasciar capire di quale immagine si tratta: forse di un Cristo che accarezza il capo di un bambino. Vi sono invece molti gigli borbonici.
Una formella con i gigli borbonici presenta anche la firma del costruttore: “L.A.F.F.N.1858”, cioè Luigi Abbati fece fare nel 1858. Già, il perito del governo ducale, soprastante dei beni della Corona Abbati, fece fare, ma che cosa? Tutto il fabbricato o soltanto i lavori di adattamento?
Facciamo un passo indietro e riportiamoci al Seicento.
Tanto il Ferlaro quanto Montecoppe furono confiscati dal duca Ranuccio I ai Sanvitale, affittati (1) e poi col tempo messi in vendita.
Nel secolo seguente c’erano diverse unità poderali, più o meno spezzettate, chiamate Montecoppe. Intanto c’era Montecoppe Alto, più a Ovest rispetto alla strada, e c’era Montecoppe Basso, cioè questa unità ora anche a caseificio; poi c’erano diverse pezze di terra dette sempre Montecoppe, di diversi proprietari, gestite da diversi affittuari: Fedolfi, Tarchioni, Bergonzi, Canali e alcuni monasteri. Poiché le terre erano lambite, come ancora oggi, dal Canale di Collecchio e dal Rio Manubiola, da documenti riguardanti ripartizioni di diritti d’acque si dovrebbe riuscire riesce a capire qualcosa, ma non è facile.
Il Regolamento del 1824 del Canale di Collecchio è firmato dal Presidente dell’Interno Ferdinando Cornacchia, dal Podestà del Canale Ferdinando Tachioni, dal vice-podestà Ercole Bergonzi e da altri 24 “interessati”, tra i quali Pietro Fedolfi e il Patrimonio dello Stato, per il quale agisce il ministro Luigi Bondani, coinvolto anche a titolo personale in quanto proprietario di terre in zona, ma più a valle (2).
Una coeva Descrizione de’ manufatti esistenti nel canale di Collecchio, segnala che alla chiavica di Montecoppe erano interessati, secondo ben specificati tempi di utilizzo delle acque irrigue, Vincenzo Pavesi, la Casa Ducale, Emiliano Bricoli e la Casa Marazzani Visconti Terzi (2) .
In questa zona – tradizionalmente, però, più al Ferlaro che non a Montecoppe, – esisteva un oratorio, di proprietà della famiglia Fedolfi.
Nella seconda metà del Settecento, il duca don Ferdinando, ma più che lui la duchessa consorte Maria Amalia, si interessarono ai boschi, ma soprattutto sul versante opposto di Sala Baganza e quindi il Casino de’ Boschi. Durante la dominazione francese, in conseguenza degli espropri dei beni dei conventi, il Patrimonio dello Stato entrò in possesso di quanto di Montecoppe era già stato in proprietà delle monache di Santa Teresa (4).
Dopo la bufera napoleonica, quando a Parma si giunse alla pace di Maria Luigia, la duchessa si rivolse a questo lato della tenuta boscosa tra Sala e Collecchio, probabilmente per sistemare con l’opportuna discrezione in un luogo discosto dalla residenza ufficiale, i figli avuti dal matrimonio morganatico con il Neipperg. Maria Luigia, dunque, dopo essere venuta in possesso dei beni confiscati alle monache di Santa Teresa, nel 1827 acquistò dai Fedolfi il Ferlaro e parte di Montecoppe (tra l’altro), con i loro terreni coltivati e boscosi, ma anche edifici e l’oratorio, poi spedì l’architetto Paolo Gazola (1787-1857) nelle Valli, per la precisione al Troletto, poco più a valle di Montecoppe e del Ferlaro, perché abitando sul posto potesse più agevolmente provvedere alla costruzione di una nuova villa con l’oratorio, sopprimendo quindi quello già dei Fedolfi.
Gazola aveva simpatia per il neogotico? Forse non del tutto. Certo, lo utilizzò, ma con misura, anzi, al minimo indispensabile. “In questo clima di villeggiatura di provincia – scrive Anna Còccioli Mastroviti – si intravede la possibilità di un restauro ‘in stile’, secondo i dettami del corrente neogoticismo. Largamente diffuso nel corso dell’Ottocento, e non solo nella sistemazione di parchi e giardini ordinati dall’inglese […] il linguaggio neogotico è applicato alla creazione di serre e di interi edifici. Del resto lo stesso Gazola esordisce nel nuovo stile gotico innalzando il camino goticheggiante al Casino del Ferlaro (1828-1831). Primo emergere di elementi neogotici nell’isola linguistica del neoclassicismo parmense, il camino della villa rende esplicita la particolare attenzione dell’architetto alle nuove correnti stilistiche che percorrono l’Ottocento; nonché esprimere concretamente tali innovative acquisizioni. È noto che il contesto urbano non si presta a tale discorso o, per meglio dire, il codice-stile neogotico non lascia nel territorio come nella stessa città, alcuna traccia incisiva” (5) .
Di fatto il caso del camino del Ferlaro rimane, per quanto si sa, quasi l’unico manufatto neogotico realizzato da Gazola: del resto nel Duomo di Piacenza e nel Palazzo Gotico della stessa città, che altro avrebbe potuto fare se non riprendere quello stile?. Né la stessa ricercatrice, la maggiore biografa di Gazola, ha potuto rintracciare, tra le carte dell’architetto, i disegni del caseificio di Montecoppe, né altre goticherie.
1.Gian Luca Podestà, Dal delitto politico alla politica del delitto, EGEA, Milano 1995, pp. 284-285.
2. Regolamento proposto dagli Signori interessati sulle acque del Canale di Collecchio ed approvato dalla Presidenza dell’Interno il 24 settembre 1824, Parma, presso Rossi-Ubaldi, 1825.
3. Il fascicolo, che descrive il contenuto di una mappa, che non abbiamo rintracciato, si trova nell’archivio privato Rugalli Cipani.
4. Lodovico Gambara, Le ville parmensi, La Nazionale, Parma 1966, pp. 259-263; Francesca Dallaturca, Parchi e residenze extra urbane dei duchi di Parma. Artegrafica Silva, Parma, 1979, p. 40.
5.Anna Còccioli Mastroviti, Paolo Gazola alla luce di nuovi documenti, in ASPP, a. 1985, p. 88. V. anche: Ead., Un architetto piacentino alla Corte di Parma Paolo Gazola (1787-1857), in Aurea Parma, fasc. 1983-1984, pp. 305-307.
In conclusione, nell’arco di tempo tra la fine del secondo decennio e l’inizio del terzo decennio dell’Ottocento, l’oratorio Fedolfi, dovunque fosse (6), venne soppresso e al suo posto ne sorse un altro inglobato nella villa del Ferlaro, dove abitarono Albertina e Guglielmo Montenovo. Villeggiatura e residenza, sì, ma con un occhio di riguardo al produttivo.
Il 6 giugno 1832 Albertina dal Ferlaro così scrisse alla madre: “Martedì fummo alla casa nuova per vedere le mucche tirolesi, che sono sempre bellissime e grasse. I vitelli dell’anno scorso sono bellissimi e ce ne sono due piccoli di otto giorni. Ma mi pare che la stalla fosse meglio collocata a Montecoppe. Vi do questi particolari perché so che v’interessate alle vostre mucche” (7).
Alla morte di Maria Luigia (8) i beni ducali passarono ai secondi Borbone e quindi, nel 1858, quando il funzionario ducale Abbati intraprese i lavori di ri-costruzione della casella o caseificio di Montecoppe Basso, proprietari di tutto – anche di Montecoppe Alto, dove nel frattempo era sorta un’ampia vaccheria – era Luisa Maria di Borbone, ormai però sul punto di lasciare la scena.
Tutta la proprietà passò quindi allo Stato Sabaudo e più tardi, dopo altri passaggi, verrà acquistato dalla famiglia Carrega (1882). Ma noi ci possiamo fermare al 1858-1859, perché da allora la situazione del caseificio, come struttura muraria, non sembra essere affatto cambiata, specie nella parte più interessante, cioè la fronte neogotica.
Il neogotico, già proposto con successo sin dalla seconda metà del Settecento, di preferenza in edifici religiosi, ritornò in auge, con le debite varianti, in Francia e in Germania durante il periodo dell’Eclettismo ottocentesco.
Parma e il Parmense sono piuttosto poveri (quanto a numero, non certo come qualità) di edifici in stile gotico, quello vero, ma assai più di questo neogotico.
Per venire invece al neogotico del periodo Liberty bisogna aspettare la fine dell’Otto o i primi del Novecento, quando si ingaggiarono in questa ripresa architetti come Camillo Uccelli (1874-1942), Mario Vacca (1887-1954) e altri provenienti dall’Istituto d’arte parmigiano (9).
Sia come sia, si fa fatica a pensare che l’edificio di Montecoppe sia stato pensato e progettato proprio come caseificio in uno stile così prossimo all’architettura religiosa e, per di più, di costo sicuramente superiore ad un edificio a paramento murario normale, che non avrebbe richiesto particolari materiali e tempi di esecuzione. Tuttavia l’oratorio Fedolfi, dedicato a Sant’Antonio Abate (10), costruito ai primi del Settecento e poi risistemato e ribenedetto negli ultimi decenni del secolo (1783), non poteva essere questo di Montecoppe Basso. Ipotizzerei pertanto un precedente e in concluso intervento del monastero di Santa Teresa, risalente alla seconda metà del Settecento, poco prima della confisca napoleonica.
A Montecoppe Basso, le monache avrebbero iniziato la costruzione di un oratorio, che doveva essere proprio neogotico, o, se vogliamo lasciare questa definizione alle realizzazioni della successiva schiera di architetti sopra menzionati, potremmo chiamarlo tardogotico. Anzi, tardissimo, quasi fuori tempo massimo. Sarebbe curioso sapere se vi sono altri esempi in provincia.
Proseguendo nel delineare l’ipotesi, possiamo supporre che la costruzione, non terminata e quindi né benedetta né consacrata, quindi non ancora idonea al culto – e, di conseguenza, mai menzionata nei documenti vescovili – dopo la confisca, venga resa del tutto profana.
I contadini, da allora, usarono l’edificio come meglio credettero. Non è escluso che iniziassero, in questo edificio, o in uno di quelli della corte, a produrre burro e formaggio. Nel 1842 a Montecoppe (non è detto se Alto o Basso o se s’intendono entrambi assieme) c’erano: 1 toro, 10 vacche, 3 vitelli, 7 manzi e, nel caseificio, 22 forme (11).
Finché si giunse al 1858, quando – defunto ormai Gazola – fu il perito Abbati a prendere in mano con decisione la faccenda: ristrutturò interamente il corpo di fabbrica e ne salvò integralmente – o quasi – soltanto le facciate, e inserì la formella con la sua firma al colmo del tetto nella spoglia facciata Ovest. I lavori non erano forse del tutto terminati quando Luisa Maria dovette lasciare Parma e abbandonare regno e beni.
Questa è un’ipotesi. Sicuramente ve ne sono altre (12), tutte egualmente valide o forse più vicine alla realtà di questa, ma finché non si troveranno i documenti giusti: carta canta…!
Dove per documenti giusti intendo il progetto, il contratto di appalto, gli stati di avanzamento e il certificato di collaudo; in qualche archivio quasi sicuramente ci sono, il problema è farli uscire allo scoperto. Col tempo.
Intanto, per non sbagliare, che l’edificio sia nato nel 1858 o chi sia più antico, interessante sotto l’aspetto storico e architettonico lo è di sicuro; forse è il caso di favorirne la conservazione sottoponendolo a vincolo secondo la legge 1089/39. Può essere la maniera, quanto meno, di limitare o interrompere lo stillicidio di superfetazioni e improprie addizioni, come purtroppo avvenuto negli ultimi decenni.
Con l’Unità, anche Abbati, come i suoi datori di lavoro ducali, passò un brutto quarto d’ora. Poiché era il responsabile dei guardaboschi, era diventato inviso particolarmente alla popolazione di Sala, che lo rimproverava di eccessiva rigidità nei confronti della povera gente abituata ad andare nei boschi a raccattare qualche frutto e un po’ di legna da attizzare il fuoco (13). Rimase comunque sulla breccia e nel 1866 lo ritroviamo tranquillo al suo nuovo posto di funzionario dello Stato Sabaudo, soprastante ai beni già della Corona Ducale e interessati alle acque del Canale di Collecchio (14).
C’è un altro personaggio che potrebbe avere avuto un ruolo nella vicenda, cioè Salvatore Rugalli (1827-1907), ingegnere civile, più giovane di Gazola e forse anche di Abbati, ma che aveva rapporti di lavoro con entrambi; di Gazola era anche parente, ed era ispettore della Società del Canale di Collecchio. Chissà.
6. Nelle mappe del Catasto Napoleonico, che si trovano tanto in Archivio di Stato a Parma quanto nell’Archivio Storico Comunale di Collecchio, sono indicate le minuscole sagome dei fabbricati del Ferlaro (Fedolfi) e di Montecoppe, ma non è possibile rilevare un’identificazione d’uso degli edifici disegnati. Negli atti notarili dl 1827 esaminati da Giovanni Pietro Bernini (Le ville fuori porta, ovvero il piacere della campagna: il Casino dei Boschi e il Ferlaro, II parte, in Parma per l’Arte, 2 (1996), pp. 88, 92) l’oratorio Fedolfi (senza indicazione del santo cui era dedicato) è chiaramente menzionato come pertinenza del casino del Ferlaro già Fedolfi.
7. Marianna Prampolini, La duchessa Maria Luigia, Ugo Guanda ed., Artegrafica Silva, Parma 1991, pp. 198-199.
8. Mario De Grazia, L’esecuzione testamentaria di Maria Luigia e considerazioni su Parma di allora in una memoria del tempo, in Parma nell’Arte (PNA), 2 (1972), p. 112.
9. Gianni Capelli, Gli architetti del primo Novecento a Parma, Battei, Grafiche Step, Parma 1975, p. 18.
10. Nell’archivio parrocchiale di Collecchio esisteva, fino a un certo tempo fa, un manoscritto della metà del Settecento, ora perduto, nel quale l’allora parroco don Giuseppe Marinzoni (attivo tra il 1725 e il 1751) descrisse gli oratori esistenti nell’ambito della parrocchia. Fortunatamente alcuni brani del manoscritto furono pubblicati da don Ferruccio Botti nel bollettino parrocchiale Cose Nostre; nel numero del 13.11.1960, p. 2, troviamo anche quello del Ferlaro: “Quasi confinante con la parrocchia di Sala c’è il palazzo del sig. Fedolfi, che prima era la possessione del conte Gherardo Terzi di Sissa. Io non so se ai tempi dei Terzi vi fosse l’oratorio; so che ora vi è nel recinto del palazzo finito [fornito] di tutto il bisognevole per i santi Sacramenti per la S. Messa, tanto più che i detti signori [Fedolfi] hanno tre fratelli, un parroco e due consorziali”. L’oratorio, poi ricavato negli ambienti della nuova villa del Ferlaro, venne chiamato del Rosario e in seguito, spostato sempre all’interno dello stesso fabbricato, al tempo dei Carrega, di Santa Maria delle Grazie: F. Botti, Maria Luigia duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla (1816-1847), Battei, Scuola Tip. Benedettina, Parma 1969, p. 48; U. Delsante, Arte e storia nel Comune di Collecchio, in PNA, 2 (1975), p. 79; Id., “tra gente povera e mendica”. L’ambiente a Collecchio durante il periodo napoleonico (1796-1814), Graphital, Parma 2000, p. 69.
11. Mario Zannoni, A tavola con Maria Luigia, Artegrafica Silva, Parma 1991, p. 136.
12. Secondo Giuseppe Cirillo e Giovanni Godi (Guida Artistica del Parmense, vol. II, Artegrafica Silva, Parma 1986, p. 314) anche questa facciata “neogotica” sarebbe “probabilmente del solito Gazola”. Lo stile adottato da Gazola per la villa del Ferlaro è invece qui definito “tardoimpero”. Va più sulle spicce M. Zannoni (Il Parmigiano Reggiano nella storia, Artegrafica Silva, Parma 1999, p. 90) il quale scrive, nella didascalia delle foto: “Caseificio della tenuta ducale di Montecoppe di Collecchio (Parma). Costruito nel 1858 in stile neogotico…”. In modo dubitativo (Cirillo-Godi) o perentorio (Zannoni), non mi convince il fatto che, a metà dell’Ottocento, sia stato costruito ex novo un caseificio in forma non poligonale, che è quella tradizionale. Ritengo invece che, per ragioni di economia, si sia voluto utilizzare un edificio preesistente, cioè l’oratorio. Nell’ambito del Comune di Collecchio, che io sappia, l’unico caseificio poligonale, con il camino al centro, in buona parte in ciotti di fiume e soltanto in piccola parte in cotto, si trova al Quartiere, tra Collecchiello e Madregolo, nei pressi del Taro.
13.Pietro Bonardi, Sala Baganza nel 1859-60: un paese in lotta contro la paura del passato, in Malacoda, n. 12, maggio-giugno 1987, p. 47.
14. Una sua lettera, datata Collecchio 9 settembre 1866, indirizzata all’ing. Salvatore Rugalli, di argomento riguardante le acque del Canale di Collecchio, si trova nell’archivio privato Rugalli Cipani. Negli anni 1863 e 1864 presidente della Società del Canale è Bernardo Tagliasacchi e successivamente, fino al 1867, certo Bricoli di Parma.