di Giacomo Corazza
Il villaggio [di Tabiano] si trova nella zona del Parmigiano Reggiano, il formaggio per eccellenza, il re dei formaggi dicono tutti, di certo possiede qualità nutritive ed organolettiche eccezionali.
Sono nato in mezzo al formaggio, ho sentito parlare di Parmigiano da quando ero quasi in fasce, a tavola si parlava di lattivendoli, di mediatori, di forme non riuscite, ho vissuto giornate intere nel caseificio per anni ed anni, la mia tesi di laurea è stata sul siero innesto del formaggio, ho partecipato ad innumerevoli riunioni di esperti, tecnici, casari, contadini, persino gli economisti discutevano sull’argomento. […]
Da ragazzi non ci rendevamo conto di essere al centro della galassia formaggi, in un sole contornato dai satelliti. Per noi il Parmigiano era un dato acquisito, lo si faceva da sempre, da quando mio nonno aveva aperto il piccolo caseificio nel Borgo all’inizio del secolo, i documenti aziendali risalgono al 1902 anno per anno, conferimenti, produzione di burro e formaggio, numero suini.
Mio padre lo aveva progressivamente allargato; vi erano tanti caseifici nella zona, a distanza di quattro-cinque chilometri l’uno dall’altro, spesso ancor più vicini, perché la maggior parte del latte veniva portato a piedi dai contadini con i secchi; pochissimi avevano il barroccio, da noi soltanto la Pallavicina con il cavallo, perché quella stalla aveva ben venti vacche e si mungeva anche più di un bidone al mattino ed un altro alla sera.
Il caseificio era al centro del villaggio, con davanti la sua piazzetta circondata da pochi edifici: a destra l’osteria, dietro l’officina del fabbro, a sinistra il complesso di edifici denominato “Casino”, con il colonico separato dalla stalla e dal fienile, una delle poche eccezioni nel villaggio. Sotto si trovavano le porcilaie, separate da un lungo cortile, ma il loro caratteristico odore, non certo gradevole, si spandeva tutto intorno e la sera giungeva fin su in alto da noi.
Il caseificio era formato da tre parti principali: la latteria con le bacinelle per l’affioramento del grasso, la sala cottura con le grandi caldaie di rame, il burrificio con la zangola e la scrematrice, oltre ad un vecchio tavolo per confezionare i panetti di burro; in un piccolo locale a fianco stava il generatore del vapore, imponente, tutto nero al di fuori, cilindrico, alto quasi due metri e lungo almeno quattro, dove il focolare a carbone riscaldava una serie di tubi che facevano entrare l’acqua in ebollizione per cuocere il formaggio. Sotto questi locali stavano i salatoi, ove il formaggio appena fatto avrebbe riposato tranquillo nella salamoia per una ventina di giorni, assorbendo poco a poco la dose di sale necessaria alla sua conservazione.
Avevamo un secondo caseificio, giù a Variatico, sulla strada di Fidenza, che lavorava il latte di una vasta zona, troppo lontana per essere conferita al caseificio del Borgo; era più piccolo ma altrettanto efficiente, tutto in vecchi mattoni rossi, una bella costruzione tuttora esistente, oggi tornata a nuova vita come fabbrica artigianale di ceramica artistica.
Il formaggio
Il caseificio viveva il suo momento più intenso al mattino, quando si faceva il formaggio; tutto doveva essere pronto, non si poteva perdere un minuto, non ci si poteva interrompere.
La fase preparatoria era iniziata fin dall’arrivo del latte la sera precedente ed all’alba, quando il casaro aveva provveduto a distribuirlo nelle bacinelle di riposo secondo la provenienza, perché vi erano cascine ove il latte era più grasso, altre ove il contadino era meno pulito, qualcuno talora aggiungeva acqua e… bisognava tenerlo d’occhio. Aveva soprattutto tenuto a parte il latte delle vacche ammalate, da utilizzare come alimento per i suini; lo si pagava lo stesso prezzo di quello buono, altrimenti il contadino lo avrebbe mescolato con quello sano ed addio un’intera forma!
Per prima cosa il casaro aveva verificato le reali condizioni del latte dopo il riposo nelle bacinelle, in modo da poter aggiungere il siero innesto nella dose necessaria e decidere i tempi di cagliata; la qualità infatti variava da un giorno all’altro e da mattina a sera in funzione del caldo e del freddo, della pioggia o della siccità, del tipo di alimentazione delle vacche, se erba fresca o soltanto fieno secco.
Aveva controllato che il siero innesto avesse le qualità adatte. L’acidimetro era certo un valido aiuto in questa delicatissima fase, ma al casaro serviva di più la sua esperienza, il “sentirlo in bocca” per constatare se aveva il caratteristico sapore aspro, un poco simile al limone, l’annusarlo per individuare gli odori cattivi; altrimenti avrebbe dovuto andare a cambiarlo nel miglior caseificio della zona, perché il siero è come il lievito per il pane, deve essere composto da lattobacilli ben attivi e del tutto privo dei terribili bacilli tipo coli o sporigeni, che fanno gonfiare la forma.
Il casaro assecondava e nel contempo teneva sotto controllo i ritmi dettati dalla natura, decideva il tempo necessario per la coagulazione del latte dosando sapientemente le quantità di siero innesto e di caglio, in funzione della qualità dei latte di quel giorno.
Procedeva alla “spillatura” della cagliata, utilizzando una paletta con fili metallici, (ma un tempo proprio i rami di biancospino) fino a ridurla in piccoli floculi bianchi; li portava, prima lentamente poi rapidamente, alla temperatura prefissata, tastando con la mano la consistenza dei granuli che si andavano formando e bloccava la cottura solo quando erano asciutti e rappresi, una mano nel siero caldissimo, l’altra sulla saracinesca del vapore.
Tutto era affidato alla capacità, alla sensibilità del casaro, alla sua esperienza, alla sua “arte”, perché proprio di arte si trattava allora ed ancora oggi. Ed un ruolo non secondario era affidato al sottcaldera, il giovane aiutante che stava sempre a fianco del casaro e apprendeva il difficile mestiere cominciando dai lavori più umili, come il pulire bene l’interno delle caldaie di rame nelle quali si cuoceva il formaggio, fino a spazzare per terra. Aiutava il casaro a fare il burro, a trasportare il latte dalle bacinelle alle caldaie, un tempo con i secchi ed i bigonci, più tardi mediante canalette, mai con le pompe perché l’aria favorisce la fermentazione dei germi cattivi e ostacola quella dei lattobacilli.
Ma perché quel nome stranissimo, che in buon italiano vuol dire “colui che sta sotto la caldaia”? Fino all’inizio del Novecento il calore necessario per cuocere il formaggio non era fornito dal vapore che circola tra le pareti del doppio fondo, ma da un fuoco acceso proprio sotto la caldaia, dalla forma un poco diversa da quella attuale, ed un ragazzo aveva il compito di aggiungere legna minuta, le fascine, perché il fuoco doveva essere intenso e continuo dall’inizio alla fine della cottura, secondo gli ordini del casaro: dai sottcaldera!
Cotto il formaggio, il più era fatto, ma non tutto; bisognava attendere che i minutissimi granuli di caseina posassero sul fondo della caldaia, modellata proprio a tronco di cono per accoglierli quasi in un grembo materno; al momento opportuno, il casaro immergeva nel liquido un telo attaccato a due bastoncini, mentre il sottcaldera staccava lentamente la massa dal fondo della caldaia con una pala di legno, in modo da farvi passar sotto il telo; pian piano emergeva dal siero una bella massa bianca, già compatta, che i due si affrettavano a mettere nelle “fascere” perché si spurgasse e si comprimesse.
Il giorno dopo toglievano le fasce, ponevano le forme ancor tenere al sole ed alla sera le depositavano nel salatoio, ove sarebbero rimaste una ventina di giorni. Fine delle operazioni.
Noi andavamo tante volte a veder fare il formaggio, sempre interessati, cercando anche di carpire qualche striscia di tosone, il ritaglio che emergeva dalle fascere; non era molto saporito, ma per noi era una novità e lo mangiavamo di gusto.
Si facevano due tipi di Parmigiano: il Maggengo, decisamente preponderante, dal primo aprile all’11 novembre, ed il Vernengo dal giorno di San Martino fino all’inizio della primavera, che allora non veniva marchiato. Producevamo la maggior parte di Vernengo in marzo, perché il caseificio rimaneva chiuso quando il latte scarseggiava e le poche forme prodotte fra gennaio e febbraio erano di piccole dimensioni e molto magre, perché ottenute con latte che aveva riposato nelle bacinelle per due giorni.
Oggi si produce molto latte anche d’inverno, perché nelle poche stalle rimaste vi sono molte vacche, l’alimentazione del bestiame dipende molto meno dai foraggi aziendali e conviene quindi distribuire le nascite durante l’anno; la distinzione tra Vernengo e Maggengo è stata cancellata e tutta la produzione dell’anno è marchiata, giustamente, come Parmigiano Reggiano.
Nei nuovi caseifici, che in gran parte hanno sostituito quelli di antica origine, si usano gli stessi sistemi di un tempo, perché nulla è cambiato nelle tecniche di base per produrre il re dei formaggi; ci si aiuta soltanto con qualche strumento in più, con qualche macchina od attrezzo moderno per alleviare la fatica, nient’altro!
Elementi di base, come sempre, un buon fieno, un buon latte, un buon siero, un buon casaro.
Il burro
Il Parmigiano Reggiano è un formaggio semigrasso e deve quindi essere prodotto con latte parzialmente scremato lasciandolo riposare in apposite bacinelle molto larghe, per tutta la notte quello della sera, per alcune ore quello conferito al mattino; una parte dei globuli di grasso affiora e viene a formare una pellicola alla superficie, più spessa per il latte della sera. Spillando il latte da sotto, la pellicola di grasso rimane nella bacinella e viene convogliata verso la zangola per fare il burro. La scrematura meccanica del latte non è assolutamente praticabile, perché introdurrebbe dell’aria, nemica numero uno del Parmigiano Reggiano.
Si lasciava riposare la panna qualche ora perché inacidisse un poco, non troppo: poi si metteva il tutto nella zangola, che girava e girava finché al suo interno si era formata la massa burrosa, che il casaro suddivideva in grossi pani, protetti da carta oleata.
Un burro bianco d’inverno, color giallo carico in primavera quando si sfalciava la prima erba, ricchissimo di carotene, base della vitamina A. Un burro che, nonostante fosse di affioramento e non di centrifuga (ottenuto cioè direttamente dalla scrematura del latte) aveva caratteristiche organolettiche eccezionali ed era molto richiesto in alcuni negozi di Salsomaggiore.
Il casaro preparava a mano i panetti da un chilo e da mezzo chilo servendosi di un modello di legno e sempre a mano li avvolgeva nella bella carta oleata con tanto di marchio del Castello, la ripiegava con cura e piombava il tutto con piccoli sigilli metallici, a garanzia da eventuali manomissioni. E due volte in settimana il camion andava in città per la distribuzione. Dopo la guerra introducemmo una piccola impacchettatrice e la sigillatrice meccanica, che consentirono di produrre anche i panetti da 200 e 100 grammi, ma la qualità rimase sempre la stessa, eccezionale […].
La ricotta durante la guerra
Dal siero del formaggio si può ottenere la ricotta, che si chiama così proprio perché si cuoce il liquido una seconda volta, ottenendo una massa bianca, friabilissima, a base di albumina e poco grasso. Normalmente non veniva prodotta, era più conveniente scremare il siero per ottenerne ancora un poco di burro e alimentare i maiali con un prodotto molto ricco di proteine, in modo da limitare l’acquisto dei mangimi.
Ma negli ultimi anni di guerra ne producemmo moltissima, perché nelle città avevano fame, la ricotta era molto nutriente e si comprava senza tessera. Ricordo ceste e ceste ancora grondanti di siero caricate sul camioncino che andava a Salsomaggiore e faceva il giro dei negozi, quasi tutti i giorni.
A fine guerra smettemmo di farla, perché il consumo era crollato e molti preferivano quella di pecora, più saporita. Ma per noi in quei tempi era una festa quando mamma la faceva servire in tavola, buonissima mescolata allo zucchero, ottima anche condita con olio, sale e pepe.
Le porcilaie
Ai caseifici è ancor oggi collegato l’allevamento dei suini per utilizzare convenientemente il prezioso siero del formaggio. Anche noi avevamo tanti maiali nella porcilaia […].
Prima e durante la guerra alimentavamo i suini soltanto con siero e mais, prodotto in parte nell’azienda ed in parte comperato al Consorzio Agrario, crusca di grano tenero e un poco d’orzo per i suinetti. Non conoscevamo mangimi bilanciati, farine di soia americana, integratori vitaminici ed altre diavolerie dei tempi moderni. Ma i suini crescevano bene ed ingrassavano fino ad oltre due quintali, peso ideale per dei buoni prosciutti. […]
La ghiacciaia
Durante la tarda primavera e tutta l’estate occorreva il ghiaccio per fare il burro e conservarlo qualche giorno prima della vendita. Non vi erano i moderni frigoriferi ed era praticamente impossibile andare tre volte la settimana a Fidenza per acquistare dalla fabbrica i blocchi di ghiaccio. Noi adottavamo lo stesso sistema degli antichi Romani: la neve accumulata durante l’inverno e ben protetta sotto terra, che si conservava anche fino ad agosto.
Utilizzavamo come ghiacciaia uno stanzone sotto la terrazza del Castello, enorme, altissimo, senza finestre, che d’inverno salariati e mezzadri riempivano di neve attraverso due bocche: una dall’alto per introdurre la neve dei tetti e delle terrazze, l’altra laterale per la neve che arrivava con i carri, una porta abbastanza stretta, che veniva chiusa a chiave a fine riempimento.
La neve delle terrazze e dei tetti non era sufficiente a riempire la grande stanza, nemmeno negli anni di abbondanti nevicate, perché ghiacciando la sua massa si riduceva drasticamente. La maggior parte proveniva dai luoghi ove si era accumulata più alta lungo le strade. Arrivava il carro con la neve, trainato dai buoi, due uomini impugnavano le pale e gettavano la neve dal carro su uno scivolo di legno, dove altri uomini provvedevano a trasferirla, sempre con pale o badili, fino alla bocca della ghiacciaia.
A furia di badilate e di carri che andavano e venivano, si formava all’interno un grande cumulo a forma di cono, che man mano si alzava e quando era troppo alto gli uomini provvedevano a distribuire la neve sui fianchi delle pareti. E così fino a quando tutto lo stanzone era pieno.
Era uno spettacolo vedere le file di carri di neve, con il loro paio di buoi, bianchi, più spesso rosso formentino, gli uomini che si affaccendavano a scaricare; sentivano il freddo, certamente, perché la temperatura era rigida, ma lavoravano sodo ed il buon vino li aiutava a scaldarsi.
Il magazzino del formaggio
Dal salatolo del caseificio il formaggio veniva trasportato su in Castello nel magazzino di stagionatura, al piano terra dei grandi locali di servizio (sopra erano collocati i granai). All’inizio era piccolo, aveva preso il posto delle vecchie scuderie, dove un tempo, fin quasi agli anni Trenta, i nonni tenevano le carrozze.
Mio padre lo aveva progressivamente raddoppiato per potervi stagionare almeno due anni tutto il suo formaggio, alcune migliaia di forme. Così aveva deciso di eliminare le vecchie stabbiare dei maiali sotto i portici, di ridurre il pollaio verso il lato sud e soprattutto di fare un ampliamento sul lato ovest, scavando la roccia. Ricordo gli uomini che rompevano la dura massa di arenaria ghiaiosa utilizzando solo i picconi, la caricavano con i badili sulle carriole e da queste sul cassone di legno attaccato al cavallo, che la portava lontano per inghiaiare qualche strada.
Allora le forme di Parmigiano si tingevano di nero, una miscela di farina, olio di vinaccioli e terra d’ombra per proteggere la crosta dalle muffe, ma soprattutto per evitare continue pulizie, che si facevano tutte a mano; non c’erano ancora le spazzolatrici e tanto meno gli elevatori: le forme venivano collocate abbastanza facilmente nelle prime file, ma sulle ultime file bisognava issarle a braccia su di un soppalco mobile e di lì ancora a braccia fino alla dodicesima.
Ricordo mediatori e negozianti, accompagnati dal battitore (al batidùr), il vero esperto del formaggio, con la sua vestaglietta grigia, una mano a rigirare la forma posta sul treppiede di legno, l’altra a picchiare sul piatto e sul dorso con il caratteristico martelletto: suoni secchi ed omogenei per la forma “scelta”, senza imperfezioni interne; suoni sordi e difformi per la forma “sottoscelta”, con una sfoglia o qualche bucherellino all’interno, magari ottima di sapore; un rimbombo per il “ballone”, forma decisamente di scarto che noi ragazzi chiamavamo bum, bum!, con grandi occhi all’interno dovuti a fermentazione anomala; ed il ticchettio del martello risuonava per ore ed ore, fino a quando al batidùr aveva esaminato l’ultima forma.
Dopo aver usato il martello il battitore introduceva nella forma un lungo ago dritto, rigato come fosse una vite, per verificarne l’odore passandolo rapidamente sotto il naso; se aveva qualche dubbio, rigirava l’ago tra pollice ed indice per estrarre quel pochissimo formaggio rimasto fra le volute del ferro e lo assaggiava per verificarne il sapore. Non si faceva danno alla forma, sia perché l’ago era sottilissimo, sia perché il bucherellino veniva chiuso con un colpo di pollice.
Se la qualità del formaggio era gradita al compratore, si pattuivano il prezzo e le condizioni di consegna dopo lunghe trattative in ufficio, si riceveva la caparra e si attendeva il giorno della spedizione, quando arrivava un gran camion, talora con il rimorchio, e gli uomini si affaccendavano per quasi tutto il giorno a mettere le forme sulla grande bilancia e da questa sul camion, una sull’altra come grandi ruote. Noi ragazzi seguivamo tutte le operazioni con grande interesse, cercando di non intralciare il lavoro degli operai, ci affascinava la pesatura. Il signor Urgeletti, onnipresente, faceva scorrere il peso lungo l’asta graduata fino al punto in cui l’asta veniva a trovarsi in posizione perfettamente orizzontale: era una pesa di precisione, segnava la differenza di un etto su dieci quintali. E mio padre sottolineava “anche un etto fa difetto!”.
Il magazziniere era l’anima di tutto il complesso, il responsabile della buona salute del formaggio, voltava e rivoltava le forme, le puliva e le ripuliva per tutto l’anno.
Ho […] vivissimo il ricordo del caro e bravissimo Renzo, per oltre trent’anni a pulire le forme, salire su e giù dagli scaloni sudando d’estate e d’inverno, a segnalare la presenza degli scarti, a suddividere le forme in pezzi per la vendita, le prove con l’ago insieme al signor Urgeletti, per sentire se l’odore era buono!
Il vecchio caseificio non lavora più
31 dicembre 1993: il caseificio di Tabiano interrompe la lavorazione del formaggio e chiude, definitivamente, dopo quasi un secolo di attività ininterrotta, in guerra ed in pace. Un giorno di lutto, perché segna la fine di un’epoca ove il “casello” rappresentava la naturale conclusione di tutto un ciclo produttivo, che partiva dai campi e dalla stalla per ottenere il formaggio unico al mondo.
Il progresso non si ferma e rende obsoleto l’antico. Nel 1962 feci parte del team che condusse la prima inchiesta sulla struttura di mercato del Parmigiano Reggiano con gli amici Verrini, Badino e Bussi, sotto la guida del professor Galizzi alla facoltà di Agraria di Piacenza. Individuammo 1800 caseifici, che lavoravano in media 5-6.000 quintali di latte all’anno (un po’ più in pianura, qualcosa di meno in montagna), a motivo di situazioni ancestrali, collegate al trasporto del latte dalla stalla al casello, spesso a piedi con i secchi, alla quasi completa manualità del lavoro nel caseificio, alle caratteristiche peculiari di una lavorazione artigianale strettamente collegata ai processi naturali di fermentazione del latte in un determinato habitat territoriale.
Ma nel corso di quarant’anni molte barriere sono cadute: il trasporto con automezzi, la meccanizzazione parziale dei processi di lavorazione, la refrigerazione del latte e controlli biochimici più accurati hanno consentito di portare la dimensione del caseificio anche a 30 forme al giorno rispetto alle 5-6 degli anni Sessanta, pur rispettando quelle regole e quei processi naturali che consentono di ottenere il Parmigiano Reggiano; aggiungasi il forte impulso alla modernizzazione derivante dai Piani Verdi e dalle leggi a favore della Cooperazione. La ragion d’essere dei piccoli caseifici è quindi venuta meno e le chiusure hanno iniziato ad essere sempre più numerose, in media trenta all’anno.
Anche noi siamo stati travolti da questo inesorabile processo; non era possibile il raddoppio delle capacità, minimo indispensabile per una sana gestione, sia perché il caseificio era al centro del Borgo, con problemi difficilmente risolvibili nel quadro delle nuove norme sanitarie europee, sia perché non vi era sufficiente latte nella zona, con la chiusura di tutte le piccole stalle.
Non vi era scelta; abbiamo dovuto chiudere, con tanto rimpianto, rimpianto che rimane ancor oggi a distanza di un decennio quando si ritorna in quelle sale vuote, nei salatoi abbandonati, le caldaie vendute, è rimasto il grande generatore del vapore, perché difficile da smontare.
Ma rimane l’edificio al centro del villaggio per ricordarci non tanto di un passato che non tornerà mai più, quanto del futuro che lo attende, con il suo bel tetto completamente rifatto, segnale per un prossimo nuovo utilizzo, per ritornare ad essere protagonista nella nuova vita del villaggio.
Tratto da: Giacomo Corazza, Tabiano castello. La vita di ieri. Roma, Gangemi, 2002, pp. 50-60.